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SCIENZA STORIA & NOI

Gli adattamenti a fior di pelle. Quando nella preistoria la danese Hanne aveva gli occhi azzurri e colorito scuro

 

Ricostruzione artistica dell’adolescente del sito archeologico mesolitico-neolitico di Syltholm, in Danimarca (immagine dalla rivista Nature Comm., 2019)

Ricostruzione artistica dell’adolescente del sito archeologico mesolitico-neolitico di Syltholm, in Danimarca (immagine dalla rivista Nature Comm., 2019)

a cura di Roberto Macchiarelli

R. Macchiarelli(Paleoantropologo, già professore ordinario al Dipartimento Geoscienze dell’Università di Poitiers e al Muséum di Storia Naturale di Parigi)

L’ADOLESCENTE – la chiameremo Hanne – giocava a lanciare legni ai cagnetti che l’accompagnavano verso il fiordo. L’aria si era fatta umida, così decise di rientrare al villaggio. Da giorni non si sentiva proprio in forma. Sputò la resina di betulla che masticava per lucidarsi i denti e alleviare la gengivite e raggiunse la grande capanna del suo clan. Hanne aveva i capelli neri, gli occhi blu, la pelle scura. Non sapeva di avere la mononucleosi.
Il tempo, inesorabile, accumulò progressivamente terriccio e detriti sulle strutture sbilenche del villaggio in abbandono, fino ad inghiottirlo insieme ad ogni frammento di vita: la preistoria cedette il passo all’incalzante protostoria che, essa stessa invecchiata, spalancò la porta al divenire della storia, giorno dopo giorno, fino ai giorni nostri.
Cinquemilasettecento anni dopo, un’équipe di archeologi è impegnata a riportare alla luce i frammenti di quel villaggio cristallizzatosi tra il tramonto del Mesolitico e l’alba del Neolitico presso il fiordo di Syltholm, sull’isola danese di Lolland. Ed è così che, tra le strutture dei pali di capanna bruciati, i resti dei cani e della cacciagione, i carboni dei focolari, gli oggetti di uso comune, qualcuno nel setaccio recupera la resina di Betula pendula masticata da Hanne. Il laboratorio svelerà che si tratta dello scrigno del DNA nucleare dell’adolescente e di alcuni suoi patogeni (come appunto l’herpesvirus di Epstein-Barr responsabile del suo malessere).

Le “nuove dimensioni” sul colore della pelle

Variazioni della carnagione umana (immagine Angélica Dass; progetto “Humanae-Nude”, angelicadass.com/ e National Geographic, 2018)

Variazioni della carnagione umana (immagine Angélica Dass; progetto “Humanae-Nude”, angelicadass.com/ e National Geographic, 2018)

MA COSA ci faceva a quell’epoca un’africana in un villaggio dell’Europa del nord? La domanda è mal posta. Hanne non era africana, anche se, com’è il caso di noi tutti, i suoi antenati sapiens venivano proprio da quella terra. Era una ragazzina locale, “danese” diremmo oggi, come lo erano tutti gli altri membri della sua comunità, uomini e donne dai capelli e dalla carnagione scura, qualcuno con gli occhi chiari.
Grazie al lavoro pionieristico di Svante Pääbo, premio Nobel 2022 per la medicina, da due decenni la paleogenetica e la paleoproteomica sono entrate a gamba tesa nel mondo dell’archeo-antropologia e della paleobiologia scombussolandone alcuni modelli consolidati e svelandoci nuove dimensioni, impreviste.

Ricostruzione artistica di un cacciatore-raccoglitore europeo del Paleolitico superiore (Homo sapiens fossile di epoca gravettiana) del tipo “Cro-Magnon” (immagine dalla rivista Nature, 2023)

Ricostruzione artistica di un cacciatore-raccoglitore europeo del Paleolitico superiore (Homo sapiens fossile di epoca gravettiana) del tipo “Cro-Magnon” (immagine dalla rivista Nature, 2023)

Qual è, qual era la nostra proiezione immaginaria del famoso Uomo di Cro-Magnon, antenato paleolitico cosiderato (a torto) alla radice della “stirpe” degli Europei? Quella di un nordeuropeo alto e robusto dalla carnagione chiara? Errore, appunto. Quello che per primo sperimentò la micidiale arma del propulsore in l’Europa, fisicamente più simile alle popolazioni attuali distribuite tra l’Africa subsahariana ed il Vicino Oriente, era infatti di carnagione scura (mentre i suoi e nostri cugini neandertaliani erano di carnagione chiara). Come la pelle di Hanne, vissuta venticinquemila anni dopo, e quella dei membri di tante altre comunità ancora più recenti attraverso l’Europa occidentale. Quasi fino a “ieri”.
I sapiens che qualche decina di migliaia di anni fa per primi si espansero dall’Africa verso l’Eurasia erano portatori di geni (come l’SLC45A2 e l’SLC24A5) che codificano proteine attive nella produzione di melanina, la “crema solare” naturale che nelle popolazioni periequatoriali-intertropicali più direttamente esposte protegge dall’impatto della radiazione ultravioletta (soprattutto quella della lunghezza d’onda dei fotoni UV-A). Questo adattamento genetico (fotoprotezione) riduce gli effetti della radiazione sulla vitamina B9 (acido folico) che interviene nella sintesi delle basi che compongono il DNA (e l’RNA) limitando dunque il rischio di mutazioni pericolose.

Le variazioni secondo la latitudine dell’intensità della radiazione ultravioletta (immagine ESA, esa.int/Applications/Observing_the_Earth/Thanks_to_ESA_KNMI_offers_a_UV_forecasting_Service)

Le variazioni secondo la latitudine dell’intensità della radiazione ultravioletta (immagine ESA, esa.int/Applications/Observing_the_Earth/Thanks_to_ESA_KNMI_offers_a_UV_forecasting_Service)

Produrre una quantità di melanina proporzionata a quella di fotoni UV-A diffusi nell’ambiente è appunto un obiettivo strategico della selezione naturale per tutelare l’organismo. Talvolta però, ciò che in un contesto è un ovvio vantaggio, può rivelarsi un handicap se, in poche generazioni, ci si trova a latitudini diverse in contesti ambientali che richiedono altri tipi d’adattamento. Nel caso della melanina, quando e dove ha potuto, la selezione ha favorito i portatori di variazioni alleliche che riducevano lo strato di “crema solare” favorendo l’assorbimento dei raggi UV-A per stimolare la produzione di vitamina D (ormone implicato nell’assorbimento del calcio). In Europa, questo avvenne però solo molto, molto di recente. Ecco perché Hanne e i suoi erano di carnagione scura, come lo erano gli antenati di tutte le comunità in Europa almeno fino all’epoca neo-eneolitica.
«Ah, se solo Darwin avesse incontrato gli scienziati della NASA», ripete nei suoi interventi Nina Jablonski, la maggiore esperta del significato delle varizioni della carnagione umana. Ed ha ben ragione. Perché allo stesso Darwin, scopritore del meccanismo della selezione naturale, sfuggì il nesso adattativo tra “colore” della pelle e distribuzione delle popolazioni per latitudine. Oggi che le variazioni planetarie dei raggi UV-A sono state quantificate, tutto sembra invece così ovvio: le gradazioni di tonalità della pelle, quasi infinite, altro non sono che un esempio straordinario di recente adattamento umano all’ambiente.
Effettivamente, oggi sappiamo che, nel gene SLC24A5 del cromosoma n. 15, là dove la più parte delle popolazioni africane hanno non a caso la lettera G (guanina), da qualche millennio quelle europee hanno fissato un’A (adenina). Si tratta della fortunata variazione puntiforme di un gene di sole 21,700 coppie di basi, insignificante rispetto al totale di 3,2 miliardi di cui il nostro DNA è costituito. Originata probabilmente nella regione anatolica, questa mutazione della melanogenesi fu fissata rapidamente nel genoma delle popolazioni (selezione direzionale) e si propagò dapprima verso est e nord, poi verso ovest.
“Il colore della pelle è dunque un’illusione” (ted.com/talks/nina_jablonski_skin_color_is_an_illusion?subtitle=en&lng=fr&geo=fr). Certo, ma che impatto nefasto ha avuto quest’illusione, quest’esempio altrimenti paradigmatico di adattamento positivo sul destino di centinaia di milioni di esseri umani durante gli ultimi secoli.

I “colori” dell’umanità recente (immagine dalla rivista Science, 2023)

I “colori” dell’umanità recente (immagine dalla rivista Science, 2023)

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