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ILNUOVOPAESE.IT del 19/24 settembre 2024, Numero 38 (Anno XIV) - IN COPERTINA

Questo piccolo grande Homo. Cosa ci dicono i reperti fossili?

Il Grande Rift dell’Africa orientale, teatro delle primissime fasi dell’evoluzione umana (immagine The Leakey Foundation, 2019)

a cura di Roberto Macchiarelli

R. Macchiarelli(Paleoantropologo, già professore ordinario al Dipartimento Geoscienze dell’Università di Poitiers e al Muséum di Storia Naturale di Parigi)

PROVIAMO A guardare all’aspetto umano non dal punto di vista degli umanisti classici, ma secondo la visuale e con gli strumenti di chi utilizza il registro fossile, pur lacunoso e frammentario, per capire cosa/chi siamo e quali sono state le grandi tappe della nostra avventura attraverso il tempo. L’esercizio è arduo, ma non per questo poco interessante.
Il dibattito sulla natura umana è da sempre oggetto di grandi contrasti. In effetti, in funzione dell’angolo di orientamento e risoluzione della lente d’ingrandimento che usiamo per osservare il soggetto e i fenomeni ad esso correlati, il ritorno d’immagine della nostra identità varia sensibilmente.
L’approccio con cui i paleoantropologi, i ricercatori che con gli archeologi preistorici, i paleogenetisti, i geologi, i paleontologi, i tafonomisti, i geochimici, i fisici delle datazioni… studiano la storia naturale e il divenire bio-culturale dei membri della linea evolutiva umana nel contesto dinamico delle variazioni degli ecosistemi, tende a minimizzare i rischi di conclusioni arbitrarie a vantaggio dell’acquisizione di elementi il più possibile condivisibili. Questo modo di operare porta a considerare che: (I) esso si basa direttamente sulle evidenze preservate negli archivi sedimentari, che oggi possono essere caratterizzati ad alta risoluzione; (II) trascura l’immateriale, suscettibile di apprezzamenti variabili in funzione dei contesti storico-culturali e dei sistemi ideologici di riferimento; (III) genera modelli testabili grazie ad osservazioni e misure ripetibili (attraverso test eseguiti più volte nell’ambito di un medesimo gruppo di sperimentatori) e riproducibili (tra osservatori indipendenti che adottano protocolli di analisi di cui si conoscono potenzialità e limiti) e, soprattutto, perfettibili in funzione di nuove scoperte, dell’evoluzione tecnologica, dell’avanzamento dei principi teorici.

Il Grande Rift dell’Africa orientale, teatro delle primissime fasi dell’evoluzione umana (immagine The Leakey Foundation, 2019)

Il Grande Rift dell’Africa orientale, teatro delle primissime fasi dell’evoluzione umana (immagine The Leakey Foundation, 2019)

Nel corso degli ultimi quattro secoli, questo principio di funzionamento ha consentito di prendere distanza dai dogmatismi per analizzare i fenomeni nel modo più obiettivo possibile, almeno ad un tempo dato. In un mondo multiculturale che, per tradizione, tende a porre l’Uomo all’apice, quando non addirittura al di fuori del mondo naturale, la ricerca scientifica non ha la presunzione, piuttosto l’ambizione di proiettarci in una dimensione più realistica e condivisibile.

La storia dell’Uomo non è semplicistica

L’estrazione da reperti fossili del DNA nucleare e mitocondriale (paleogenetica) e di catene proteiche (paleoproteomica) permette di precisarne l’identità rivelando anche scambi genetici avvenuti tra i nostri antenati (immagine dalla rivista Science, 2019)

L’estrazione da reperti fossili del DNA nucleare e mitocondriale (paleogenetica) e di catene proteiche (paleoproteomica) permette di precisarne l’identità rivelando anche scambi genetici avvenuti tra i nostri antenati (immagine dalla rivista Science, 2019)

La storia naturale dell’Uomo viene spesso rappresentata in cliché ereditati dagli stereotipi del XIX secolo, dove persiste una visione semplicista della narrazione di ciò che siamo, o che riteniamo di essere, espressa come processo di miglioramento progressivo e lineare avulso da un reale contesto naturale. Tuttavia, i progressi delle ricerche di terreno e di laboratorio permettono ormai di scartare questa visione romantica e ci restituiscono piuttosto un processo articolato in forma di cespuglio, con diversi rametti interconnessi a formare una sorta di reticolo eterogeneo.
Oggi conosciamo gli scenari dell’origine del genere Homo – il continente africano, poco meno di 3 milioni di anni fa – e della nostra specie sapiens – nuovamente l’Africa, intorno a 300 mila anni fa – così come le grandi tappe della storia del popolamento del pianeta. Abbiamo soprattutto svelato importanti aspetti del “magma ominino” da cui è originata la linea umana – verosimilmente in seno al genere Australopithecus – e ne apprezziamo la paleobiodiversità (variazioni quantitative e qualitative tra le varie specie) e la variabilità (entità delle differenze entro ciascuna specie), cioè il materiale primario dell’evoluzione.
Fondamentale aver realizzato l’erroneità dell’equazione “cultura = Homo”, perché oggi sappiamo che anche altri rappresentanti non umani tra gli ominini  – i membri del nostro stesso ramo evolutivo – erano in grado di concepire, forgiare, utilizzare strumenti oltre mezzo milione di anni prima di Homo.
Altra grande sorpresa viene dalla dimostrazione che, all’epoca della sua apparizione in Africa e per circa trequarti della sua esistenza extra-africana, Homo sapiens non è stato il solo membro del suo genere ad abitare il pianeta, ma ha convissuto con altre forme, con altri modi di essere umani diversi dal nostro: un’altra evidenza che contrasta con la concezione di una trasformazione lineare e progressiva che avevamo costruito per celebrare la nostra unicità e che ci obbliga invece a nuove riflessioni sulla nostra natura.

All’epoca della comparsa dei primi rappresentanti del genere Homo, poco meno di 3 milioni di anni fa, un ominino non umano, probabilmente il Paranthropus, utilizzò degli strumenti litici di tipo “olduvaiano” comunemente considerati di produzione esclusivamente umana. In Africa orientale, strumenti litici sono stati trovati anche in livelli vecchi di 3.3 milioni di anni, dunque precedenti la presenza umana (immagine dalla rivista Science, 2023)

All’epoca della comparsa dei primi rappresentanti del genere Homo, poco meno di 3 milioni di anni fa, un ominino non umano, probabilmente il Paranthropus, utilizzò degli strumenti litici di tipo “olduvaiano” comunemente considerati di produzione esclusivamente umana. In Africa orientale, strumenti litici sono stati trovati anche in livelli vecchi di 3.3 milioni di anni, dunque precedenti la presenza umana (immagine dalla rivista Science, 2023)

Discipline scientifiche recenti come la paleogenetica e la paleoproteomica rivelano poi dinamiche di scambio avvenute tra forme umane diverse le cui tracce sono ancora parte attiva del nostro patrimonio genetico (introgressione). Anche se da poco meno di 40 mila anni siamo gli unici rappresentanti di una paleobiodiversità articolata, rappresentiamo un mosaico evolutivo le cui variazioni clinali tra le popolazioni distribuite dall’equatore alle regioni circumpolari sono adattative e risultano esattamente dal successo dell’azione della selezione naturale sui nostri antenati.
Dove siamo invece ancora carenti è nell’identificazione del confine “pre-umano–umano”, cosa distingue cioè un “ominino non proprio umano” da un “ominino umano”. Ma questo non è sorprendente.
Il reperto oggi considerato il più antico rappresentante del genere Homo è una porzione di mandibola rinvenuta nei livelli vecchi di 2.8 milioni di anni di Ledi-Geraru, nell’Afar etiope, etichettata LD 350-1. Cosa ci autorizza ad attribuirla con più probabilità al nostro genere piuttosto che a quello Australopithecus? Pochi, pochissimi dettagli: qualche fattezza alla superficie occlusale ed alcune dimensioni delle cinque corone dentarie preservatesi, l’orientamento del margine alveolare, lo spessore e l’altezza del corpo del fossile. Quando si procederà negli studi, a queste caratteristiche magari si aggiungeranno uno spessore dello smalto appena superiore a quello di un australopiteco, la struttura tridimensionale della superficie di contatto tra lo smalto e la dentina, la forma e il volume della camera pulpare…. Ma non lo sappiamo ancora, anche perché la polarità evolutiva dei tratti morfologici procede a mosaico impedendo al “confine” che cerchiamo di essere netto ovunque. In attesa che nuove tecnologie ci aiutino a svelare ciò che ancora ignoriamo, dal punto vista strettamente anatomico l’identità del “primo Uomo” rappresentato dal reperto LD 350-1 – o magari dell’ultimo “quasi Homo” – si riassume in poche caratteristiche.

La porzione di mandibola fossile LD 350-1 dal sito di Ledi-Geraru, nel triangolo dell’Afar. Datata 2.8 milioni di anni fa, potrebbe rappresentare il reperto umano più antico scoperto finora (immagine dalla rivista Science, 2015)

La porzione di mandibola fossile LD 350-1 dal sito di Ledi-Geraru, nel triangolo dell’Afar. Datata 2.8 milioni di anni fa, potrebbe rappresentare il reperto umano più antico scoperto finora (immagine dalla rivista Science, 2015)

Delusi dalla visuale paleoantropologica della natura umana? Certo, lo sappiamo, Homo non è solo anatomia, ma anche funzione, funzioni (diversi aggiungerebbero spirito). Però allora dobbiamo accettare che lo stesso sguardo, lo stesso riguardo, i medesimi criteri di valutazione valgano anche per i resti delle coppie di quegli ominini non umani/appena pre-umani che nell’attuale Etiopia, – ma forse indipendentemente allo stesso momento anche in Sudafrica – intorno a 200 mila anni prima dell’inizio del Quaternario generarono i primi rappresentanti di coloro che oggi estraiamo dai sedimenti e classifichiamo come esseri umani.
È questo che rende il dibattito sulla natura umana complesso e tuttora controverso. Ma anche estremamente affascinante.

 

La struttura interna delle corone dentarie rivela sottili differenze tra gli ominini. Qui le proiezioni virtuali dei denti molari dei più antichi fossili umani del Sudafrica (giallo oro) in confronto a quelle di Homo erectus (verde) e degli ominini non umani Australopithecus (celeste) e Paranthropus (marrone chiaro) (immagine dalla rivista PNAS, 2022)

La struttura interna delle corone dentarie rivela sottili differenze tra gli ominini. Qui le proiezioni virtuali dei denti molari dei più antichi fossili umani del Sudafrica (giallo oro) in confronto a quelle di Homo erectus (verde) e degli ominini non umani Australopithecus (celeste) e Paranthropus (marrone chiaro) (immagine dalla rivista PNAS, 2022)

 

 

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