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SCIENZA STORIA & NOI

A piedi, dal Vecchio al Nuovo Mondo. Le tappe del popolamento delle Americhe

Secondo diversi studi archeologici e genetici, i primi gruppi umani sapiens raggiunsero il nord del continente americano spostandosi dalla Siberia artica al seguito delle mandrie di grandi mammiferi forse già intorno a 30,000 anni fa, quando si crearono le condizioni ambientali per l’attraversamento a piedi del ponte naturale della Beringia. Con loro c’erano già probabilmente le prime generazioni di lupi-cane parzialmente addomesticati (ricostruzione artistica dalla rivista Science, 2021)

Secondo diversi studi archeologici e genetici, i primi gruppi umani sapiens raggiunsero il nord del continente americano spostandosi dalla Siberia artica al seguito delle mandrie di grandi mammiferi forse già intorno a 30 mila anni fa, quando si crearono le condizioni ambientali per l’attraversamento a piedi del ponte naturale della Beringia. Con loro c’erano già probabilmente le prime generazioni di lupi-cane parzialmente addomesticati (ricostruzione artistica dalla rivista Science, 2021)

a cura di Roberto Macchiarelli

R. Macchiarelli(Paleoantropologo, già professore ordinario al Dipartimento Geoscienze dell’Università di Poitiers e al Muséum di Storia Naturale di Parigi)

L’ARCHIVIO NAZIONALE statunitense degli immigrati (NARA) contiene il registro informatizzato di decine di milioni di individui che, a partire dalla fine del 18° secolo, raggiunsero in qualche modo il Nuovo Mondo, i più via mare. È uno straordinario libro di storia, di storie, di avventure e di sventure, d’insuccessi e di felicità, l’archivio storico più ricco di informazioni identitarie di cui disponiamo. Molte, moltissime pagine “parlano italiano”.

 L’estensione dei ghiacciai nell’emisfero boreale durante l’ultimo massimo glaciale, circa 20,000 anni fa, fu estrema nel continente americano, dove rimodellò profondamente l’identità degli ambienti. All’epoca, il livello marino planetario si abbassò di 120-130 m, dilatando i contorni continentali (immagine web)

L’estensione dei ghiacciai nell’emisfero boreale durante l’ultimo massimo glaciale, circa 20 mila anni fa, fu estrema nel continente americano, dove rimodellò profondamente l’identità degli ambienti. All’epoca, il livello marino planetario si abbassò di 120-130 m, dilatando i contorni continentali (immagine web)

Seppur paradossale e malgrado l’intensità e l’accuratezza delle ricerche archeologiche condotte da decenni, il Nuovo Mondo è invece il continente per il quale le tracce delle prime fasi di popolamento umano e di progressiva colonizzazione dei territori restano più incerte, lacunose, controverse rispetto a qualsiasi altra macroregione del pianeta. Sappiamo di più della remota Australia, tra l’altro raggiunta dai sapiens ben prima che il Nuovo Mondo.
Forse perché non abbiamo saputo cercarle queste testimonianze, perché abbiamo guardato altrove, magari perché non le riconosciamo…? Semplicemente perché, nella maggior parte dei casi, le più antiche sono state cancellate dai movimenti dei ghiacciai continentali, se all’interno, oppure inghiottite dagli oceani, quelle sub-costiere. Effettivamente, durante le ultime decine di migliaia di anni, l’alternanza delle fasi di espansione e di contrazione della calotta artica ha rimodellato sostanzialmente gli scenari che videro l’arrivo in America settentrionale dei primi esseri umani dalla Siberia artica. Nel primo caso (espansione), tra 30 e 18 mila anni fa i ghiacciai penetrarono profondamente verso gli attuali Stati Uniti creando barriere di centinaia di metri che “resettarono” nel loro avanzare le configurazioni originarie dei territori impattando paesaggi, flora, fauna e raschiando ogni testimonianza di presenza umana. All’epoca, i margini continentali erano più estesi di oggi e le linee di costa atlantica e pacifica tra loro assai più distanti. La contrazione della calotta, che seguì la lenta risalita delle temperature medie stagionali cominciata 17 mila anni fa dopo l’ultimo picco glaciale, corrispose al rilascio negli oceani dell’equivalente di circa 50 milioni di metri cubi di ghiaccio ormai liquefatto, con conseguente innalzamento del livello marino fino a 120-130 metri. Insomma, anche in questo nuovo scenario ambientale, le tracce di chi si era magari accampato lungo costa negli attuali stati del Main o di Washington, per esempio, per gustarsi l’alba, nel primo caso, oppure il tramonto, oggi bisognerebbe cercarle con lo scafandro.
Più a sud, un sito perfettamente conservato è invece quello delle Sabbie Bianche (White Sands), nel Nuovo Messico, una pista di oltre un chilometro e mezzo ove il sale ha sigillato le impronte lasciate intorno a 23 mila anni fa nei pressi di un lago dal passaggio di diversi mammiferi, tra cui un mammut colombiano ed un bradipo gigante (megaterio), insieme a quelle di piedi umani, alcuni di bambini che correvano.
È opinione comune tra i ricercatori che i primi a raggiungere il Nuovo Mondo fossero umani di tipo sapiens e che le fasi di popolamento avvennero sia a piedi attraverso la Beringia, esteso ponte di terra che univa le attuali Siberia ed Alaska, sia tramite piccole imbarcazioni lungo le rotte costiere (ma queste evidenze sono meno probanti).

Dalla Siberia partì la caccia ai grandi mammiferi

Industria litica dal sito paleoamerindiano di Cooper’s Ferry, nell’Idaho, datata 16 mila anni fa (immagine dalla rivista Science, 2019)

Industria litica dal sito paleoamerindiano di Cooper’s Ferry, nell’Idaho, datata 16 mila anni fa (immagine dalla rivista Science, 2019) a

Se l’occupazione permanente di aree della Siberia al di sopra dei 60 gradi di latitudine nord avvenne solo a partire da 15 mila anni fa, già 30 mila anni prima sporadici accampamenti stagionali per la caccia ai grandi mammiferi – in particolare, al mammut lanoso – furono installati addirittura dove oggi si trovano le sponde del Mare di Kara, nel circolo polare artico (72° N). Fu appunto in questa finestra cronologica che, seguendo le grandi mandrie di rinoceronti lanosi, bisonti, buoi muschiati…, attraverso le generazioni dei gruppi di sapiens si ritrovarono per la prima volta “dall’altra parte” del temporaneo ponte transcontinentale percorribile all’incirca tra 35 e 15 mila anni fa, e continuarono verso sud attraverso i corridoi aperti tra gli estesi ghiacciai continentali del Laurentide, verso l’Atlantico, e della Cordigliera, ad est.Al di qua ed al di là della Beringia, le notti erano lunghissime e gelate e la radiazione ultravioletta, che favorisce la produzione di vitamina D e degli acidi grassi fondamentali per l’accrescimento, estremamente modesta a quelle latitudini, con tutti i rischi di provocare serie alterazioni del sistema immunitario infantile, soprattutto durante le fasi invernali. Fu in quel contesto che, intorno a 30-35 mila anni fa, una delle tante mutazioni genetiche casuali che avvengono nelle sequenze nucleotidiche, il più delle volte sfavorevoli o addirittura letali, interessò il gene EDAR (cromosoma 2), la cui proteina gioca un ruolo rilevante nello sviluppo dell’ectoderma. La nuova variante (V370A), oggi comune tra le popolazioni asiatiche e, appunto, quelle amerindiane, molto rara in Europa ed in Africa, fu immediatamente “catturata” e fissata dalla selezione naturale perché determinava l’aumento della ramificazione dei canali e della densità delle ghiandole mammarie favorendo la capacità d’allattamento materno, dunque le probabilità di sopravvivenza dei bambini. Tra gli effetti secondari di questa mutazione, la forma detta “a pala” dei denti incisivi, un maggiore spessore del diametro dei capelli, una riduzione del numero di ghiandole sudoripare, tutte caratteristiche morfologiche comuni ancora oggi nelle stesse popolazioni.

La morfologia “a pala” dei denti incisivi è uno dei caratteri morfologici diffusi nelle popolazioni asiatiche ed amerindiane associati ad una variante del gene EDAR che venne fissata nel genoma delle popolazioni umane paleoartiche intorno a 30-35,000 anni fa in quanto determinava soprattutto un aumento nelle capacità di allattamento materno in un contesto ambientale sfavorevole alla produzione naturale di vitamita D e di acidi grassi, fondamentali per la sopravvivenza dei neonati (immagine dell’autore)

La morfologia “a pala” dei denti incisivi è uno dei caratteri morfologici diffusi nelle popolazioni asiatiche e amerindiane associati ad una variante del gene EDAR che venne fissata nel genoma delle popolazioni umane paleoartiche intorno a 30-35 mila anni fa in quanto determinava soprattutto un aumento nelle capacità di allattamento materno in un contesto ambientale sfavorevole alla produzione naturale di vitamita D e di acidi grassi, fondamentali per la sopravvivenza dei neonati (immagine dell’autore)

Nel loro peregrinare, i piccoli gruppi mobili di sapiens che diventeranno i “primi Americani”, si accorsero di non essere i soli a dirigersi dove la luce scompare: dei lupi-cane li seguivano a poca distanza. All’arrivo nella tundra siberiana dei primi gruppi di cacciatori di mammut, i loro antenati a canini particolarmente sviluppati si erano dapprima posti in aperta competizione con i nuovi predatori, che li tenevano a distanza bruciando le ossa degli animali abbattuti. I più opportunisti, cominciarono però a seguirli senza interferire, attendendo le operazioni di caccia e sfruttando i resti delle carcasse abbandonate. Nel tempo, gruppi di lupi appresero che, per sopravvivere, era più fruttuoso e meno pericoloso spingere le prede verso le sagome a due zampe per farle abbattere, e poi attendere di consumarne anche loro i resti: mutualità d’interessi. Alcuni, pochi all’inizio, presero a trascorrere la notte in prossimità degli accampamenti in attesa di riprendere a cacciare insieme l’indomani. Probabilmente, in diverse occasioni il richiamo di qualche cucciolo attrasse l’attenzione di qualcuno del gruppo, che lo fece entrare nel perimetro dell’accampamento. Attraverso le generazioni, si creò così un rapporto di collaborazione tra i due predatori originariamente antagonisti, con una sorta di co-evoluzione adattativa attestata dai cambiamenti genetici nel DNA mitocondriale di diverse linee di lupi-cane che seguirono gli umani nel loro penetrare le Americhe sempre più a sud, fino alla Terra del Fuoco, la “fine del mondo”.
Athlinata, il giovane cacciatore di leoni marini di una famiglia Yamana installata lungo il canale Beagle, stava assicurando la sua canoa alla foresta subacquea di lunghe alghe brune per tornare verso il focolare sempre acceso della sua capanna di rami di faggio antartico. Portava solo un perizoma ma, dopo millenni di adattamento ad un ambiente estremo, il suo metabolismo gli permetteva di non avvertire troppo il freddo. Era comunque tempo di rientrare. Ai limiti della boscaglia scorse le sagome di tre individui, tre, come il numero fino al quale gli Yamana sapevano contare, sufficiente nel loro piccolo ma sconfinato mondo perché al di là c’era “il molto”, non quantificabile. Levò verso l’alto l’arpone con l’apice di osso di balena seghettato attendendo un segnale. Che arrivò, fulmineo. I tre svuotarono su di lui il loro arsenale di fuoco abbattendolo, quindi lo raggiunsero, lo legarono e lo trasportarono su di un carretto per poi caricarlo su di un piccolo battello. L’indomani avrebbero raggiunto Ushuaia per vendere il loro prezioso carico di corpi di indiani fuegini al migliore offerente di una delle golette che, in funzione delle condizioni del mare, connettevano regolarmente la “fine del mondo” ai porti europei percorrendo a ritroso il canale per evitare i pericoli di Capo Horn. Molti musei del ricco Vecchio Mondo avrebbero senz’altro ben pagato per integrare nelle loro collezioni lo scheletro dei tanti “selvaggi amerindiani” che, come Athlinata, nel tempo andranno a riempire le loro vetrine, ultimi macabri testimoni di un’avventura straordinaria di evoluzione umana.

La pista delle impronte nel parco nazionale delle Sabbie Bianche, nel Nuovo Messico, dove sono state rinvenute le tracce del passaggio di diversi esseri umani che, insieme ad altri mammiferi, si spostarono lungo le sponde di un antico lago intorno a 23,000 anni fa (immagine dalla rivista Science, 2018)

La pista delle impronte nel parco nazionale delle Sabbie Bianche, nel Nuovo Messico, dove sono state rinvenute le tracce del passaggio di diversi esseri umani che, insieme ad altri mammiferi, si spostarono lungo le sponde di un antico lago intorno a 23 mila anni fa (immagine dalla rivista Science, 2018)

 

 

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