SCIENZA STORIA & NOI
Buoni o cattivi? Qual è stata la natura dei nostri lontani antenati preistorici
a cura di Roberto Macchiarelli
(Paleoantropologo, già professore ordinario al Dipartimento Geoscienze dell’Università di Poitiers e al Muséum di Storia Naturale di Parigi)
NEI QUOTIDIANI, oltre alle consuete notizie di guerre, conflitti, stragi e attentati, la cronaca nera ordinaria riempie da sola buona parte dello spazio nelle loro pagine. Poco importa in quale punto del pianeta ci si trovi a leggere un giornale. E, se fosse stato possibile, questo sarebbe avvenuto anche ben prima dell’invenzione di J. Gutemberg della stampa a caratteri mobili, nel XV secolo.
Della violenza umana e della sua natura se ne disquisisce da secoli. A voler esemplificare, il pendolo oscilla in qualche modo tra la visione profondamente negativa di Thomas Hobber – per natura, Homo homini lupus – e quella di un secolo dopo di Jean-Jacques Rousseau, che nutriva invece speranza nei risultati dell’educazione in funzione dell’influenza sull’individuo del contesto di riferimento.
Scevro da qualsiasi visione filosofica, morale, teista, un contributo scientifico originale per concezione e realizzazione l’ha fornito un’équipe di biologi evoluzionisti di diversi istituti di ricerca spagnoli. Pubblicata sulla rivista Nature nel 2016, l’analisi sperimentale, solida per quantità e qualità dei dati trattati, ha comparato alla casistica umana – derivata da 600 studi sui sapiens antichi (50 mila anni) e attuali da comunità-società pre-industriali – i dati di ben 1.024 specie di mammiferi da 137 famiglie (l’80 per cento di quelle esistenti) per calcolare una sorta di indice comparativo di violenza letale intraspecifica. Per definizione, questo evidentemente non prende in conto gli atti di predazione compiuti verso individui di altre specie, per competizione o procacciamento del cibo, ma unicamente la proporzione di morti violente tra membri della stessa specie.
Se proiettato nel diagramma filogenetico, il tasso di violenza letale intraspecifica di Homo sapiens è sei volte superiore a quello alla base della diversificazione dei mammiferi (avvenuta nel corso degli ultimi 100 milioni di anni), superiore anche a quello stimato per altri membri del ramo evolutivo a noi più vicino (come l’orango e il bonobo), ma inferiore a quello del gorilla e dello scimpanzé comune che, a differenza del cugino bonobo, non è certo noto per essere particolarmente gentile con i suoi consimili. Per non parlare poi della letalità tra i babbuini, e non solo.
Nel contesto evolutivo dei mammiferi, insieme ad alcuni compagni di strada, siamo dunque divenuti via via più violenti di chi ci ha preceduto, anche se c’è ben di peggio (specie tra i felini).
Lo studio tuttavia non risolve, ma anzi alimenta, la controversia Hobber-Rousseau – o piuttosto il contrario – nel senso che effettivamente l’ambiente – qui inteso come modelli demografici, distribuzione e densità territoriali, disponibilità e accesso stagionale alle risorse… – gioca in tutti i casi un ruolo rilevante. Inoltre, sappiamo che i tassi di violenza nella storia umana si sono profondamente modificati in funzione dei cambiamenti culturali e nell’organizzazione sociale e politica delle comunità. Purtroppo, la lente d’ingrandimento usata dai ricercatori spagnoli non ha questo livello di risoluzione.
Ma se la nostra violenza letale intraspecifica è indiscutibile, è questo un derivato dal quid dei nostri antenati e predecessori non sapiens? Eranoquesti buoni o piuttosto cattivi? Purtroppo non è possibile rispondere in modo soddisfacente a questa domanda, ma possiamo almeno usare delle tracce, dei segnali dall’archivio dei reperti fossili.
Ignorando il cannibalismo – sovente legato ad esigenze nutritive (e di cui parleremo in altra occasione) – evidenze che suggeriscono casi di violenza inter-individuale in seno al genere Homo esistono in epoche remotissime. Tuttavia, rispetto al numero di reperti considerati su scala planetaria, esse sono rare, anche se aumentano in Eurasia tra i Neandertaliani, i nostri cugini estinti più prossimi insieme ai cosiddetti Denisoviani (riparleremo di entrambi), per poi diventare relativamente comuni nei sapiens antichi e raggiungere livelli davvero critici nella preistoria recente, a partire dal Neolitico. Rispetto alle comunità di cacciatori-raccoglitori, quello fu un punto di “non ritorno”.
In alcuni casi, il trauma da corpo contundente – un bastone, una pietra – condusse rapidamente a morte l’individuo, come dimostrato dal cranio n. 17 di Sima de los Huesos, in Spagna, vecchio di 430 mila anni, il cui proprietario si era ingaggiato in un tanto cruento quanto risolutivo “faccia a faccia” con un avversario implacabile che non mancò di colpirlo con forza e ripetutamente per finirlo. In altri, il traumatizzato se la cavò, almeno per qualche tempo, come l’individuo n. 3 di Shanidar, in Iraq, ferito in diversi punti del corpo, e quello di Saint-Césaire, in Francia, colpito in testa, entrambi neandertaliani, ma di epoca più recente. Per altri reperti, più numerosi, non è invece possibile distinguere tra trauma accidentale e violenza interpersonale.
Insomma, anche se la prima parte del verso 19 del canto XXVI dell’Inferno dantesco (“Fatti non foste a viver come bruti…”) non è rigettata come “ipotesi scientifica”, non possiamo nemmeno dire che la seconda (“…ma per seguir virtute e canoscenza”) sia pienamente supportata.
Non mancano però evidenze opposte, cioè di casi di aiuto, solidarietà, cure, di pietas, come li definì il celeberrimo paleontologo Stephen J. Gould. E questa casistica, antichissima, che ci riporta addirittura indietro di quasi due milioni di anni, è senz’altro più sorprendente e significativa del computo delle morti violente e dei traumi che possiamo ricavare dallo studio dei fossili. Ma questa è un’altra storia da raccontare.
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