L'idea geniale di Mattia Scaroni laureatosi a Torino in Antropologia sociale
Come studenti e immigrati nelle città del Nord scendono a casa per un momento
di Valeria Meli
LE IDEE geniali le riconosci subito, perché non appena ne vieni a conoscenza pensi immediatamente che si trattava di un qualcosa di cui tutti – o quasi tutti – erano a conoscenza, ma che nessuno si era fermato ad indagare. Un po’ come la mela di Newton, che un giorno cade e nasce una nuova teoria. Le idee geniali sono ovvie ma assolutamente non banali, anzi. Geniale è, a nostro avviso, la tesi di laurea in Antropologia sociale del giovane pugliese Mattia Scaroni dal titolo «Il pacco da giù. Un’analisi antropologico-sociale sugli studenti pugliesi a Torino». Questo lavoro analizza e spiega come, attraverso il gesto di inviare un pacco contenente generi alimentari (e non solo) dalla regione di origine a figli e parenti trasferiti, si rafforzino i legami con la propria terra di origine, con i parenti stessi e perfino i rapporti sociali creati nella terra di arrivo. Un tema così interessante non poteva passare sotto silenzio, così abbiamo deciso di rintracciare l’autore di quest’interessantissimo studio per fargli qualche domanda.
Mattia Scaroni, laureatosi a marzo in Antropologia culturale ed Etnoantropologia all’Università degli Studi di Torino oggi è impegnato in mille attività. È stato contattato e ha rilasciato interviste a diversi quotidiani e invitato in diverse trasmissioni radiofoniche.
Mattia, come è nata l’idea di scrivere questa tesi?
«L’idea della tesi è nata a partire da una più ampia riflessione sulla questione meridionale. Era infatti mio interesse scrivere una tesi che riguardasse il Sud con particolare attenzione alla questione dell’emigrazione. Il pacco da giù è visto come un oggetto che si muove nel senso letterale e metaforico nel processo storico all’interno dei flussi migratori da sud verso nord. E il mio lavoro si configura come un’etnografia con una parte di autobiografia» .
Com’è stata curata la ricerca?
«Dal punto di vista metodologico ho condotto una ricerca di tipo qualitativo con interviste semi- strutturate attraverso le quali, partendo da domande di tipo esperienziale riguardanti il proprio rapporto con l’oggetto analizzato, l’emozionalità a esso connesso e la condivisione del suo contenuto con gli altri, ho realizzato un discorso più ampio di tipo storico e antropologico. Per restringere il campo di analisi di un fenomeno molto vasto, e anche in considerazione del fatto che la comunità pugliese è molto rappresentata a Torino, nella mia ricerca mi sono concentrato sul pacco da giù pugliese inviato in questa città. Per questa ragione ho interloquito con studentesse e studenti fuorisede a cui ho guardato come dei veri e propri emigrati. La condizione degli studenti, infatti, pur essendo sicuramente privilegiata rispetto a chi nei secoli scorsi si spostava per lavoro, è pur sempre un fenomeno di emigrazione. Inoltre, dal punto di vista storico, nel corso della mia ricerca ho avuto modo di confrontarmi con gli emigrati pugliesi degli anni Sessanta, Ottanta e inizio Duemila, rendendomi conto che sicuramente il pacco da giù accomuna tutte le generazioni. In sostanza parlare di pacco da giù vuol dire parlare di emigrazione. Anche se è necessario puntualizzare che esso, sebbene sia un oggetto molto diffuso, non è un’abitudine universale perché ho conosciuto tanti meridionali e pugliesi che non lo ricevono».
Da un punto di vista antropologico, qual è la tematica principale dello studio?
«Dal punto di vista antropologico mi sono concentrato sui legami metaforicamente contenuti nel pacco da giù e che, a partire da esso, si possono sviluppare: legami famigliari a distanza, in particolare la cura genitoriale veicolata (con le implicazioni connesse, ad esempio trasmissione di ricette) e legami con la propria terra (ad esempio déjà vu di ricordi della propria infanzia, con sapori che rammentano il posto in cui si è cresciuti) e, infine, possibili implicazioni derivanti la condivisione del pacco da giù nel contesto di arrivo (spesso infatti quando si riceve un pacco da giù si organizzano pranzi e cene dove il cibo ricevuto diventa veicolo per la costruzione di legami).
E invece, in termini di emozioni, cosa suscita il ricevere un pacco?
«Ciò che emerso nel mio studio è che ricevere un pacco è – come affermato da un mio intervistato – scendere a casa per un momento anche senza esserci fisicamente o in altri casi – casa che sale su. Inoltre nel trovare nel pacco determinati alimenti, alcuni intervistati rivivono scene di quando erano piccoli, ad esempio quando tornando a casa vedevano la nonna preparare un determinato dolce. In tutti i casi, le emozioni legate al ricevimento dell’oggetto sono sempre duali: da un lato c’è il bello di ricevere l’oggetto, dall’altra parte c’è la nostalgia di casa».
In un precedente articolo («Gli innumerevoli volti della discriminazione verso il Sud dagli anni ’60 ad oggi», ndr) era stato citato il pacco come oggetto di scherzi ironici. Durante il periodo dello studio, è mai capitato di sentire affermazioni che criticavano l’usanza delle famiglie meridionali di spedire i “pacchi da giù”?
«Si, in particolare una mia intervistata mi ha raccontato di aver subito un caso di antimeridionalismo giocato sul “pacco da giù”. Lei abitava con una ragazza piemontese che quando arrivava il pacco da giù ne macchiettizzava il ricevimento. Questo caso è particolarmente interessante perché l’autrice dello scherzo aveva la possibilità di attingere a tutta una serie di alimenti prodotti direttamente dalla sua famiglia, ma sorrideva e scherzava quando a ricevere gli alimenti attraverso il pacco era la sua coinquilina. Insomma, un tipico esempio di quella che l’antropologo calabrese Vito Teti definisce folclorizzazione del Sud, che si innesta quando, a parità di fenomeno, ciò che riguarda il Sud viene un po’ riletto sotto una chiave macchiettistica. Questo è un fenomeno molto diffuso».
Esiste una sorta di ricetta del “pacco da giù”, di ciò che contiene?
«Dalla ricerca è emerso che è impossibile creare una sorta di ricetta del pacco da giù perché esso viene personalizzato in base a chi lo fa e a chi lo riceve, concentrando l’attenzione sui gusti e sulle cose preferite della persona a cui lo si spedisce. Tuttavia, nel pacco pugliese ci sono degli alimenti ricorrenti: l’olio e i taralli. Seguono poi prodotti caseari, carne, salumi, insaccati, conserve di pomodoro, ma anche cibi in scatola, prodotti per la cura del corpo e vestiti».
È stato prima affermato che «Seppur bello, il pacco da giù, vorremmo che non esistesse». Cosa si vuol dire con questa frase?
«Semplicemente che il pacco da giù esiste perché ce ne siamo andati. E ciò si ricollega a un’altra amara riflessione sul fatto che la maggior parte delle persone non ha voluto ma ha dovuto spostarsi. Io personalmente, che sono originario di Santeramo, non credo che sarei mai emigrato se avessi trovato la facoltà universitaria di mio interesse in Puglia o a sud di Roma. Il pacco da giù parla di legami per l’ovvio motivo che, per il fatto stesso che esiste, testimonia il fenomeno dei legami messi a distanza».
La ricerca sul “pacco da giù” ha avuto una grande risonanza mediatica, dopo alcuni mesi dalla laurea. Ora quali sono i progetti?
«Sì, non mi aspettavo una così grande risonanza del mio lavoro. Mi sono da poco trasferito a Perugia e non ho ancora progettato nulla a lunga scadenza. Invece, per quanto riguarda l’immediato, in queste settimane sono stato contattato da un paio di case editrici e, insieme al mio tutor, il professor Dario Basile, sto valutando l’idea di pubblicare la mia ricerca. Mi piace l’idea che questo mio lavoro possa essere utile a riflettere sull’emigrazione. Alcuni dei genitori dei miei intervistati hanno pianto leggendo le interviste sul pacco da giù rilasciate dai propri cari. Ecco, penso che sarebbe importante nel nostro Paese avviare una riflessione seria sulle cause strutturali che portano al fenomeno migratorio e a tutte le implicazioni ad esso connesse».
Scrivi un commento