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ALCHIMIA & DINTORNI

Giovanni di Rupescissa, frate della Quintessenza. «Per sempre incarcerato!»

Giovanni di Rupscissa, il frate inviso per le sue idee sull’Apocalisse e le sue profezie: di lui parliamo questa settimana nella rubrica “Alchimia & dintorni”. Indubbiamente una figura di pensatore alquanto enigmatica e oscura. Ma la vera Alchimia, come si sa, non mira alla trasformazione del piombo in oro ma alla trasformazione dell’animo umano e al miglioramento di se stessi. 

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di Aleister

Fra Giovanni di Rupescissa -1310 ca-1365 (immagini web)

Fra Giovanni di Rupescissa -1310 ca-1365 (immagini web)

GIOVANNI DI Rupescissa è stato un frate francescano spirituale occitano, nato e vissuto in Francia nel XIV secolo. Le varie ricerche condotte sulle sue origini non hanno scoperto quasi niente sulla sua famiglia di provenienza, di cui lui, del resto, non parla quasi mai. Sappiamo che cominciò gli studi di filosofia a Tolosa e divenne novizio francescano, ricevendo nel 1340 – così narrano le cronache – la prima rivelazione sui significati racchiusi nell’Apocalisse. Subì, quindi, un processo per eresia in cui, per sua fortuna, l’inquisitore non riuscì a decostruire l’ortodossia del singolare religioso; nonostante questo il suo ordine decise di non concedergli la libertà e lo tenne segregato in un sottoscala del convento di Rieux. Trascorse quasi metà della propria esistenza in prigionia, prima in carceri conventuali e poi in una prigione papale di Avignone, dove morì nel 1366.

Il religioso recluso per le sue profezie apocalittiche

Trattato Sulla QuintessenzaIn verità, non è del tutto chiaro per quali imputazioni sia stato detenuto per così tanto tempo. Nei lunghi anni di galera acquisì una conoscenza vastissima di testi profetici e apocalittici, vaticini, oracoli e sibille, moltiplicatisi a dismisura nell’età di mezzo, che trascrisse e interpretò parola per parola (e che in molti casi conosciamo solo grazie a lui), dando vita a una serie di previsioni su quanto sarebbe accaduto fino alla fine dei tempi. Nel 1356 condensò il frutto del suo lavoro nel monumentale Liber ostensor quod adesse festinant tempora (Il libro che mostra che i tempi si affrettano ad avvicinarsi). A quell’opera, rimasta praticamente priva di diffusione, fece seguire, pochi mesi dopo, un compendio, il Vade mecum in tribulatione, il suo libro più celebre, che elenca in venti punti le tribolazioni imminenti e finali che l’uomo incontrerà sul suo cammino, quasi a fornire uno strumento per chi voglia riconoscerle in anticipo e trovarne scampo. Il testo ebbe notevole circolazione, sia nella versione originale latina sia nei volgarizzamenti prodotti nei decenni successivi in varie lingue. In esso si tratta della venuta dell’Anticristo (in realtà per Rupescissa ce ne sarebbero due: l’occidentale e l’orientale), dell’avvento quasi contemporaneo del pastore angelico (figura di asceta mandato per operare una riforma profonda della Chiesa e del mondo, d’intesa con il sovrano messianico) e, infine, dell’instaurazione del millennio finale di pace sulla Terra.
L’ambiguità della figura di Rupescissa – carcerato nella Avignone papale, ma nonostante ciò in contatto con alti ecclesiastici, come indica anche la dedica della sua opera più imponente al cardinale Talleyrand de Périgord, protettore dell’ordine dei frati minori – è in fondo anche l’ambiguità del suo messaggio profetico, che da un lato invoca la riforma della Chiesa, preconizza l’insorgere della iustitia popularis e preannuncia l’instaurazione del regno futuro della libertà e della pace; dall’altro immette sulla scena del cambiamento soggetti destinati, nei secoli successivi, a fare parte più dell’arsenale immaginario dell’Ancien Régime che di quello dei rivoluzionari dei tempi moderni. Proprio la celebrazione del pastore angelico è in questo senso emblematica: una dottrina in origine eversiva, che però si prestava a finalità apologetiche e celebrative del papato in quanto istituzione salvifica. Mentre denunciava dal carcere avignonese la corruzione della Chiesa, Giovanni propagandava fiducioso la ripresa del papato, grazie a un pontefice cui rivendicava una funzione limpidamente messianica. Proprio qui si intravede un motivo di interesse storico e dottrinale: Rupescissa allestisce un patrimonio di retoriche e di figure destinate a innervare il linguaggio e la propaganda profetico-politica dei secoli successivi. Si parte da qui e, attraverso complicati passaggi – di cui certo non possiamo considerare responsabile lui – si giunge al messianesimo di Tommaso Campanella e all’antimessianesimo di quei circoli statunitensi che dal secolo scorso fino ad oggi si nutrono dell’attesa dell’Anticristo e lo vedono arrivare dall’Oriente – prima dall’Oriente sovietico, negli ultimi decenni dal Medio Oriente. Resta, tuttavia, di quel messaggio apocalittico (come in fondo di ogni messaggio apocalittico, e forse anche di ogni teologia che pretenda di stabilire tempi e momenti della storia), la suggestione del tentativo di individuare un filo, di dare un ordine al disordine degli avvenimenti, e l’invito a tenere gli occhi sempre ben aperti, vigilando sui segni dei tempi.
Rupescissa scrisse anche diversi testi di Alchimia. Nel Trattato sulla Quintessenza propugna l’antico metodo sapienziale dell’abbandono alla forza della Natura. Non lo turba la storia di cui intravede, con levigata fantasia lessicale, i limiti e le discronie. Il suo tempo è il tempo dell’uomo: l’allegoria di un mondo ancora degno del suo significato etimologico. La francescana religiosità di Rupescissa, il suo calarsi in un modello ispirato, non sono soltanto i segni dei tempi in cui egli visse, ma altresì una benevolente clemenza della Grazia. Il linguaggio di questo testo è spesso oscuro e arcaico per due precisi motivi: il primo perché l’informazione alchemica, come si sa, viene fornita per mezzo di enigmi, di spostamenti di senso lessicale, della logica dell’illogicità; il secondo perché Rupescissa è un evidente precursore di Paracelso, dell’omeopatia, della nomenclatura della Natura. Il libro, infatti, espone con tecnica terrena il modello spagirico del Caldo e del Freddo, i due elementi che Rupescissa riteneva alla base dell’estrazione della Quintessenza. É un’opera che rimane comunque un messaggio d’amore e d’intelligenza nei confronti della Natura, di cui siamo perenni debitori.

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