Print This Post Print This Post

A PROPOSITO DI...

Il valore educativo della dimensione filologica secondo Michele Di Marco

Immagine

di Mario Castellana

MARTINA FRANCA, città pugliese nel Tarantino, nella seconda metà del ’900 ha visto la presenza di due figure impegnate nel settore della ricerca in campo umanistico col privilegiare il mondo della cultura classica come Dora Liuzzi, venuta meno qualche anno dopo essere stata docente di Lingua e Letteratura Latina presso l’Università del Salento col dedicare diversi lavori al poeta latino Marco Manilio, e Michele Di Marco, attualmente docente di Lingua e Letteratura Latina Medievale presso l’Università degli Studi di Roma Tre, con vari studi su autori di tale lungo periodo. I loro lavori si caratterizzano per la costante attenzione alla dimensione filologica dei testi degli autori studiati; tale attitudine è ritenuta, in questi ultimi tempi da più parti,  sempre più consona con le problematiche odierne dato che in Occidente, e non solo, sta emergendo la necessità di essere sempre più attrezzati sul terreno storico-concettuale per far fronte all’enorme mole di informazioni che ci circondano  e per essere  in grado di gestire con autonomia ed in modo più consapevole le nuove tecnologie lanciate  verso il sofisticato mondo dell’Intelligenza Artificiale. Questa nuova stagione caratterizzata da una inedita accelerazione tecnologica, chiamata età del technium da Kevin Kelly per il fatto che raggiunge un numero impressionante di utenti e che interagisce mappandola digitalmente  con la realtà, può cambiare i nostri connotati e decifrare il nostro stesso corpo col manipolarlo, come sostengono sia Matthew Ball nel suo recente testo  The Metavers and how it will revolutionize everything (2022) e l’economista Noah Yuvai Hariri in  Le sfide del XXI secolo (2018). Non a caso, la stessa Commission on the Futures of Education (Unesco, Parigi 2021) e l’Agenda 2030  invitano a non sottovalutare la formazione di impronta umanistica  nell’educazione delle nuove generazioni per essere più in grado di gestire il sistema di machine learning e di comprenderne la non neutralità sul terreno ideologico; inoltre, sulla scia delle indicazioni di Martha Nussbaum, una solida formazione basata sulle discipline umanistiche abbinate con quelle scientifiche a partire dalle matematiche forti della capacità di ‘diffidare di verità assolute’ per in continui processi creativi che mettono in atto come ha scritto Chiara Valerio in La matematica è politica (2020), può essere considerata  un baluardo contro le degenerazioni dei sistemi democratici per la capacità di fornire adeguati strumenti critici agli stessi cittadini sempre più impegnati, tra le altre cose, a far fronte ai linguaggi delle diverse tecnologie.
Tra le discipline umanistiche che più abituano all’esercizio critico del pensiero e concorrono alla formazione dell’abito democratico   si distingue  non a caso la filologia, grazie alla  rigorosità interna dei suoi specifici metodi di risemantizzazione, aspetto presente nei lavori sia di Dora Liuzzi che di Michele Di Marco; nel mettere in atto quella continua ermeneutica semantica  nel senso di Bachtin, essa ci aiuta a  ripercorrere il lungo travaglio di senso attribuito alle parole  durante i secoli ed in tal modo si rivela una vera e propria risorsa non solo cognitiva, ma esistenziale e civile a largo spettro in grado di scovare nelle pieghe dei linguaggi in uso, compresi quelli impiegati nelle sempre più sofisticate tecnologie digitali, aspetti dell’umano non facilmente percepibili, ma significativi alcuni dei quali deliberatamente tenuti nascosti  e altri rimossi. Il lavoro  filologico è stato storicamente un continuo laboratorio  dove si è montato, smontato e  rimontato il senso delle parole e della loro funzione discorsiva; e  in esso come in un ‘arsenale’, a dirla con Dario Antiseri, si sono ‘forgiati’ gli strumenti dei nostri stili cognitivi e di vita nel dare spazio ai vari ‘volti della verità’, per usare un’espressione di Aldo Gargani, essenziali per gettare le basi delle vie democratiche.
In tal modo le discipline filologiche e semio-linguistiche nel loro complesso, come ci ha insegnato Umberto Eco,  hanno costituito un arredo concettuale imprescindibile grazie al quale noi uomini ci rapportiamo alla nostra vita sia naturale che sociale  nel cercare di dare più senso  alle vicende storiche  e alle diverse esperienze che ci coinvolgono; ma come discipline hanno come oggetto specifico di indagine l’incremento cognitivo di senso assegnato ai termini e le innovazioni semantiche a questo processo collegate, come ci dimostra Michele Di Marco  nei suoi diversi lavori su rilevanti figure della letteratura cristiana antica e medievale. E nella sua non comune peregrinazione in tale ambito non potevano non mancare dei saggi su una delle massime auctoritates dell’Alto Medioevo, la figura di Sant’Isidoro di Siviglia (560-635), vescovo e dottore della Chiesa che ebbe un ruolo cruciale nelle vicende ecclesiali e politiche del suo complicato tempo con l’indire sia il Concilio di  Siviglia che quello di Toledo. Ma sul piano delle idee il suo nome è legato per lo più ad una delle prime opere di natura enciclopedica della storia, le Etymologiae sive Origines di venti  libri dove tale figura ha racchiuso in voci quasi tutto lo scibile antico  dalla retorica alle scienze, dalla letteratura alla filosofia, dalla musica all’agricoltura, dall’astronomia alla medicina; con tale compendio è stato messo in atto un filone di pensiero che troverà il suo punto di arrivo nell’Encyclopédie  degli Illuministi francesi. Per questa  non comune impresa, Giovanni Paolo II lo ha proposto ‘patrono di Internet’ per averci trasmesso il patrimonio conoscitivo elaborato nell’antichità e aver gettato le basi per un dialogo critico tra saperi e culture, oltre a costituire una fonte per gli studi successivi ed un punto di riferimento per gli autori medievali anche per i Commentarii al Vecchio Testamento.
Michele Di Marco in particolar modo si concentra sull’opera di Isidoro Regula monachorum (615-619) in diversi corposi saggi apparsi sulle riviste ‘Latinitas’ e ‘Paideia’ (2015, 2018, 2019, 2021); tale opera non è di secondo piano nella ricca produzione del vescovo di Siviglia in quanto il monachesimo, come è noto, stava assumendo  sempre più nella vita  sociale e nella cultura del tempo un ruolo determinante da avere bisogno di ben precise regole scritte per essere condivise e che dovevano accompagnare la vita quotidiana dei monaci impegnati nei vari campi a partire da quelli impegnati nella trascrizione dei testi antichi. Grazie ai monaci occidentali è pervenuta sino a noi una grande quantità di tali testi e, come hanno dimostrato diversi studi storico-linguistici e di natura filologica, il loro lavoro non si è limitato  semplicemente a copiarli e trascriverli, ma ha contribuito ad arricchire la lingua latina di altri vocaboli con l’introdurvi diversi neologismi; e lo stesso Isidoro, come dimostra Michele Di Marco, in tale impresa è stato un maestro in quanto ha innovato il latino col dare ai neologismi  la cruciale funzione di arricchire il patrimonio conoscitivo classico di nuove idee e concetti ivi assenti sino a penetrare in diverse discipline dalla medicina al diritto.
Il secolare lavoro dei monaci e quello dello stesso Isidoro hanno irrobustito sia sul piano strettamente linguistico che su quello sapienziale il mondo antico aprendolo ai contenuti del messaggio cristiano che ha dovuto specificarsi nel senso di dover adattare la lingua latina alle  proprie esigenze teologiche a partire dal lessico liturgico; ma questa complessa operazione non si è limitata  al solo ambito ecclesiale, ma ha avuto un notevole impatto sull’organizzazione dell’intera società, sui costumi e sulla mentalità dei secoli successivi. Isidoro, da parte sua, ha saputo ben coniugare il non comune possesso del patrimonio linguistico-concettuale classico con le nuove esigenze teologiche e le relative pratiche ad esse connesse come quelle relative ai sacramenti e alla celebrazione eucaristica; ed il lavoro filologico di Michele Di Michele, nel prendere in considerazione la Regula monachorum,  contribuisce a chiarire e ad individuare gli elementi innovativi del lessico liturgico-rituale.  Nello stesso tempo l’attenzione viene rivolta  a gettare nuova luce sulla variegata terminologia monastica di Isidoro che  pose le basi degli aspetti istituzionali e materiali della vita cenobitica sino alla formazione di un “lessico disciplinare morale e spirituale” riguardante anche la vita  interiore dei monaci.
La scrupolosa analisi condotta da Di Marco si concentra in particolar modo sui diversi neologismi introdotti da Isidoro e mira a sottolineare “le innovazioni semantiche” introdotte rispetto al latino classico, innovazioni semantiche curvate per dar conto del significato liturgico e del comportamento quotidiano della vita dei monaci; vengono così analizzati termini del latino classico come ad esempio i sostantivi ‘psalmus’, ‘oratio’, ‘sacrificium’, ‘votum’, ‘ministerium’, ‘intentio’, ‘saeculum’, ‘servitium’, ‘contemplatio’, ‘ conscientia’. Ampia è poi l’analisi del ruolo degli  aggettivi come ‘sanctus’, ‘perfectus’, ‘privatus’, ‘carnalis’, ‘servilis’ come quella di diversi verbi e  avverbi; ma tutto questo per Michele Di Marco è finalizzato, oltre a colmare una lacuna negli studi sulla latinità cristiana,  a  capire meglio le idealità sottese al percorso di Isidoro e a evidenziarne le difficoltà e i limiti.
Attraverso un approfondito studio storico-critico dell’apporto di una figura centrale nella cultura dell’Alto Medioevo dove lo strumento filologico si rivela strategico per individuarne i contributi più salienti, emerge  il non secondario fatto che anche nelle discipline umanistiche, come in quelle scientifiche,  si assiste ad un incremento cognitivo dovuto alla rigorosità delle metodologie messe in atto anche se l’oggetto di studio è il passato, un passato lontano dalle esigenze odierne; ma va tenuto presente che l’incremento cognitivo non è, per parafrasare  Federigo Enriques, un percorso  verso il rigoroso, ma verso il ‘sempre più rigoroso’ che ogni singolo ricercatore mette umilmente in atto per dar conto di un problema, di un reale altrimenti non raggiungibile. Ma una conquista sul piano concettuale, come dar conto da parte di Michele Di Marco delle innovazioni semantiche apportate ad una lingua del passato per nuove esigenze sopraggiunte come nel caso di Isidoro di Siviglia, se ben metabolizzata si rivela una risorsa per l’oggi e le problematiche connesse ai sofisticati linguaggi delle tecnologie digitali che hanno bisogno di una costante attenzione critica non per demonizzarle, ma per capire i  meccanismi di base e i continui cambiamenti semantici di cui sono portatori; e la rigorosità di cui si ha bisogno oggi più che mai  nei loro confronti non è solo quella di capirne il funzionamento come utenti, ma di comprenderne le implicite finalità ideologiche  non visibili direttamente che, se non individuate, possono essere le cause non secondarie dell’indebolimento dell’abito democratico che faticosamente ci siamo costruiti e che va pertanto alimentato di nuove tensioni etico-cognitive.
Se c’è una cosa che accomuna il lavoro filologico, come quello messo in atto sia da Dora Liuzzi che da Michele Di Marco e le discipline umanistiche e scientifiche nel loro complesso,  è quella che si può chiamare sulla scia di Nietzsche e di Freud  ‘l’arte del sospetto’ nei confronti di tutto ciò che l’uomo fa non certo per distruggerlo, ma per rendere il suo operato più consapevole nelle scelte e nelle sfide che quotidianamente lo impegnano; per non essere in balìa di nuove ‘corazzate’ e combatterle con le barche a vela nel senso avanzato da Pierre Teilhard de Chardin che definiva tali i regimi totalitari, che stanno diventando le nuove tecnologie grazie a noi stessi che le stiamo costruendo non capendone a volte le finalità, abbiamo il dovere di conoscerne il linguaggio, di smontarne i meccanismi per cercare di riorientarle e di aggiungervi senso e  di chiarirlo, come fa l’onesto e  umile lavoro  filologico.

Stampa

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.

*