SPECIALE NUMERO ZERO DE "IL NUOVO PAESE" - Via Fani: 37 anni dopo
Perché Aldo Moro doveva essere rapito dalle Brigate rosse il 16 marzo 1978 anche annientando la sua scorta?
Questa che segue è parte dell’appendice posta al termine del libro Noi ragazzi del ’78 e il ricordo di un’estate italiana di Francesco Caroli (Schena, 2014), dal titolo Se ci fosse luce.
Perché le Brigate rosse vollero attentare alla vita di Aldo Moro, portando a termine il suo assassinio dopo 55 giorni di prigionia? (…) È ancora questa la domanda – rimasta drammaticamente inevasa – su tutte le ricostruzioni possibili e ipotizzate da magistrati, giornalisti e storici. (…) Indubbiamente, il rapimento e in seguito l’assassinio di Aldo Moro, rappresentarono la punta più alta di un anno – il 1978 – che per l’Italia venne vissuto come se tutto un popolo fosse in trincea.
Lungo il corso di quell’intero anno, gli italiani potettero assistere «a un fenomeno assolutamente inedito, almeno dal 1948 in poi: l’accelerazione dei tempi». (…) I giorni che vanno dal 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, che portò alla strage di via Fani, sino al 9 maggio dello stesso anno, giorno in cui fu rinvenuto il cadavere dello statista democristiano in una Renault rossa in via Caetani, a metà strada tra le sedi della Dc e del Pci, sono giorni che appartengono non solo alla storia del nostro Paese, marchiandola a fuoco, ma alla storia personale di ciascuno di noi. Ogni italiano visse quel periodo come se in pericolo fosse non solo la vita di un politico eminente, come fu Aldo Moro – criticato o amato che fosse non importa –, ma la sua stessa vita. Mai come in quei 55 giorni l’esistenza della nazione venne percepita da tutti come messa in pericolo. Un unico sentire che ci accomunò tutti come in un sol corpo, come se ognuno di noi fosse minato nelle certezze più vere e autentiche.
Fu una specie di febbre collettiva…
«Mi ricordo il rapimento di Aldo Moro». È questa una delle tante testimonianze spontanee che si possono leggere ora su internet. «Ero a scuola, una media, e quando uscimmo in strada trovammo una scena inconsueta. Fuori c’erano molti genitori ad aspettare i propri figli. C’erano soprattutto madri. Ricordo bene che rimanemmo stupiti di vederle davanti a noi. Erano preoccupate. I miei genitori non c’erano, ma la madre di un compagno di classe ci spiegò che avevano rapito l’onorevole Aldo Moro. Io me ne tornai come di consueto a casa a piedi, ma ero preoccupato, certo in senso vago, fumoso… Era la prima volta che una preoccupazione esterna, distante, proveniente da un altro mondo, richiedeva la mia attenzione. Veniva a bussare al portone della scuola. Mi ricordo che il rapimento di Moro mi impressionò a partire da questo evento inconsueto: l’allarme nel cerchio della vita quotidiana per qualcosa che accadeva lontano, a una distanza apparentemente enorme per noi ragazzini. Poi le immagini alla tv dell’auto in cui era stato portato via Moro, e le altre nei giorni successivi, mi impressionarono, mi confermarono una volta per tutte che il fuori era più grande, molto più grande del mio quartiere e anche della mia città. Si potevano rapire le persone, le si poteva tenere chiuse in un buco e poi ammazzarle. Era davvero una cosa così grossa. Lo avevo capito subito, osservando gli sguardi delle mamme fuori dalla scuola». (…)
Ma perché Moro venne rapito e poi assassinato dalle Br?
Una domanda alla quale si è cercato di rispondere in tutti questi anni attraverso vari livelli. Politico. Giudiziario. Giornalistico. Ma soprattutto si è cercato di rispondere attraverso le esperienze e i sentimenti personali, a cominciare da quelle della famiglia Moro, per finire con le testimonianze più varie.
Si sono così disegnati pezzi innumerevoli di un puzzle di difficile composizione.
Una ricostruzione che a volte sfiora la fantapolitica, altre la cronaca e l’attualità. Un’attualità che si fa ormai storia. Anche storia personale.
Innanzitutto il pensiero va alle immagini dei cinque uomini della scorta uccisi senza alcuna pietà nel primo mattino del 16 marzo 1978. In quel tragico giorno, subito dopo la diffusione per tv delle foto degli uomini della scorta, la personale attenzione di chi scrive – come quella di molti altri pugliesi – fu inconsapevolmente attratta dal volto di un giovane poliziotto di Fasano, piccola città in provincia di Brindisi: Francesco Zizzi. Anche lui venne trucidato come gli altri dalle pallottole “brigatiste”. La foto di quel poliziotto, di soli trent’anni, si caratterizzava per alcune peculiari caratteristiche: un paio di baffoni sormontati da due occhi scuri che ti guardano dritti in faccia, con onestà e pacatezza.
«Roma, giovedì 16 marzo 1978. Alle ore 9 – così si può leggere nella Cronologia del delitto Moro fatta da Sergio Flamigni (cfr. S. Flamigni, La tela del ragno, Milano 2003) – un commando di terroristi, appostato in via Fani all’incrocio con via Stresa, apre il fuoco sulla scorta del presidente della Dc, on. Aldo Moro, uccidendo Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera; Francesco Zizzi, gravemente ferito, morrà poche ore dopo. Il commando, sterminata la scorta e prelevato Moro illeso dalla sua auto (una Fiat 130) carica l’ostaggio su una Fiat 132 blu e si dilegua».
Si è personalmente conosciuto Franco Zizzi alcune estati prima di quei tragici avvenimenti. (…)
Tra i cinque uomini della scorta (i carabinieri Domenico Ricci e Oreste Leonardi e, insieme a Zizzi, i poliziotti Raffaele Jozzino e Giulio Rivera), Franco si ritrovò soltanto per puro caso in quel tragico mattino del 16 marzo 1978, dovendo all’ultimo momento sostituire un collega. E, al contrario degli altri suoi colleghi, non venne fulminato da una micidiale scarica di mitra, ma colpito in auto da tre proiettili. Morì nella stessa mattinata in ospedale, al “Gemelli”. Vano il tentativo disperato dei medici di salvarlo.
«Le perizie hanno stabilito – rileva senza mezzi termini Sergio Flamigni – che quasi tutti gli agenti della scorta di Moro vennero finiti con il “colpo di grazia” (solo l’agente Zizzi, al suo primo giorno di servizio nella scorta, venne risparmiato, e morì all’ospedale qualche ora più tardi). Inspiegabile il perché di tanta ferocia quando tutti gli agenti erano già stati colpiti mortalmente (Jozzino era esamine a terra, raggiunto da 16 proiettili; Rivera era già stato colpito al cuore, e altri colpi mortali avevano raggiunto sia Leonardi sia Ricci); salvo che il caposcorta Leonardi, o gli altri anziani militari della scorta, avessero potuto riconoscere qualcuno del commando». (…) E sui proiettili usati dalle armi dei brigatisti, sempre Sergio Flamigni nota che in buona sostanza «le perizie hanno appurato che in via Fani vennero usate anche munizioni di provenienza speciale. Tra i bossoli repertati, 31 erano senza data di fabbricazione e ricoperti di una particolare vernice protettiva, “parte di stock di fabbricazione non destinata alle forniture standard dell’esercito, della Marina e dell’Aereonautica militare”. Cartucce dello stesso tipo verranno poi trovate anche nel covo Br di via Gradoli». Una procedura questa – dice Flamigni – usata per fabbricare proiettili per la fornitura a forze statali non convenzionali. «E quando verranno scoperti i depositi “Nasco” della struttura paramilitare segreta della Nato “Gladio” si riscontreranno le stesse caratteristiche delle munizioni di quei depositi».
Francesco Zizzi, dei cinque uomini della scorta, fu il solo a giungere ancora vivo al Policlinico “Gemelli”. Ma, dopo nemmeno tre ore, il suo cuore cessò di battere spezzato da tre dei 93 proiettili sparati durante l’attentato. Anche lui vittima – come gli altri colleghi – del fuoco micidiale del piombo brigatista.
Il maresciallo Oreste Leonardi, 52 anni, era definito l’«ombra di Moro», era la sua guardia del corpo dal 1963 e fu proprio lui a fare da scudo umano al presidente della Democrazia cristiana. L’appuntato Domenico Ricci, 44 anni, era invece l’autista di Aldo Moro da circa vent’anni: seguiva il parlamentare scudocrociato in ogni trasferta, con grande devozione e affetto. Erano i due carabinieri che erano nell’auto di Aldo Moro, una Fiat 130.
L’agente Giulio Rivera era alla guida dell’auto che seguiva quella di Moro: era il più giovane degli uomini della scorta, aveva solo 24 anni. L’agente Raffaele Jozzino, 25 anni, e quindi anche lui giovanissimo, fu l’unico a riuscire a scendere dalla macchina per cercare di difendere i suoi compagni. Il vicebrigadiere Francesco Zizzi, in polizia dal 1972, entrò a far parte – per ironia della sorte – della scorta del presidente Moro proprio il 16 marzo di due anni prima. Nel ‘76 vinse il concorso per la scuola allievi sottufficiali di Nettuno. Si trovava nell’Alfetta che scortava l’auto di Moro, seduto al posto del passeggero, con il compito di caposcorta. Il vicebrigadiere di Ps Francesco Zizzi aveva solo trent’anni. Insieme a Rivera e Jozzino erano i tre poliziotti della scorta Moro.
Adriana Zizzi è la sorella di Franco.
Di quei terribili giorni, e di tutto quello che poi ha comportato per le famiglie delle vittime, ne dà toccante testimonianza in un’inchiesta televisiva intitolata “Quelli di via Fani”, mandata in onda nel 2005 durante una puntata della trasmissione di Giovanni Minoli La storia siamo noi.
Insieme a quella di Adriana Zizzi sono raccolte le testimonianze degli altri parenti degli uomini della scorta di Aldo Moro.
Sono particolarmente significative le parole della signora Zizzi nel descrivere i sentimenti dei parenti degli uomini delle forze dell’ordine uccisi così barbaramente dagli uomini delle Brigate rosse.
«Per lunghi anni – afferma con voce accorata la sorella di Francesco Zizzi nella trasmissione televisiva di Minoli – mi sono sentita diversa, era come se portassi un marchio. In paese siamo abbastanza conosciuti… Spesso però succede che se mi presentano una persona nuova si dica: è la sorella di Franco Zizzi. E questa cosa mi turba, mi turba ancora. Mi dà agitazione, inquietudine».
Come mai Francesco Zizzi faceva parte della scorta dell’on. Moro? Lo aveva già fatto nei giorni precedenti? E perché proprio quel giorno? Domande che sorgono spontanee vedendo la giovanissima età dei tre poliziotti presenti sull’Alfetta che scortava l’auto del presidente Dc.
«Quella mattina – rileva in proposito Adriana Zizzi – Franco ha sostituito un suo collega. Quello era il primo giorno, il 16 marzo ’78… Il primo giorno di questo servizio per mio fratello. C’è troppo orrore nell’immaginare soltanto la violenza che ha subìto in Via Fani. Ero in casa quella mattina. La notizia me la portò mio suocero. Non la notizia che non c’era più Franco. Ma la notizia del fatto che avessero rapito l’on. Aldo Moro. Mi dispiacque tantissimo. Ci pensai…». Adriana si ferma qualche attimo nel suo racconto. Cerca di ingoiare il suo dolore. Ancora troppo forte per essere dimenticato. Poi, spontaneamente, considera ancora: «Sì, ci pensai… Ma non pensai minimamente che potesse essere capitato questa cosa a mio fratello. Io non sapevo che poteva far parte della scorta di Moro. Franco non faceva parte della scorta di Moro!».
Dopo tale constatazione, quasi a chiedersi il perché di quella coincidenza che non sa tuttora spiegare, l’immagine di Adriana Zizzi sfuma in quella degli altri parenti delle vittime di via Fani.
Riappare dopo le immagini televisive di archivio con l’edizione straordinaria che riprendono i corpi straziati per terra degli uomini della scorta di Moro. E la voce di Paolo Frajese che dice: «Ecco il corpo di un altro componente della scorta. Quattro corpi – quattro corpi sono qui per terra alle 10 del mattino!».
Erano i quattro corpi colpiti a morte. Per Francesco Zizzi vi erano ancora delle speranze. «È stato trasportato al Gemelli. È vissuto per tre ore ed è morto alle 12 e mezza di quella mattina», considera amaramente Adriana, la sorella di Franco Zizzi. «Nel tardo pomeriggio abbiamo raggiunto Roma. Un’impressione bruttissima: la città era deserta. Non c’era nessuno per strada. Andammo al Viminale e qualcuno, qualche piantone, ci indicò il nome dell’albergo che dovevamo raggiungere, dove dovevamo essere ospitati. Siamo andati in albergo ancora ignari. Arrivati in albergo lì ho trovato già i familiari degli altri caduti, erano tutti in pianto; c’era un clima terribile. Ho visto questa gente che piangeva, uomini in divisa: lì ho capito che era morto mio fratello».
Con un groppo alla gola continua: «Mamma è stata l’ultima a uscire da quella stanza, la camera mortuaria, lo ha chiesto al colonnello che era accanto a lei e accanto a mio fratello e l’ha ottenuto. Ha ottenuto il permesso di rimanere sola ancora un po’, solo lei con il figlio».
Le immagini si soffermano ora sul funerale di Stato. Ci sono tutti gli uomini di potere di allora: da Andreotti a Zaccagnini, da Cossiga a Leone, da Fanfani a Pertini, da Pietro Ingrao a Tina Anselmi. Sui loro volti i loro stati d’animo.
«Dalla sagrestia – racconta Giampaolo Pansa dalle colonne di La Repubblica il 19 marzo 1978, descrivendo i funerali di Stato nella basilica patriarcale di San Lorenzo al Verano – passa Cossiga con il capo della polizia Parlato. A mezzogiorno, il ministro dell’Interno era stato all’obitorio, si era inginocchiato davanti a ciascuna bara. Qualcuno dice di aver assistito a un momento di tensione. “Ma che sei venuto a fare qui?”, qualche parola aspra. Ecco Ingrao. E Fanfani. E Bonifacio e Andreotti. Infine, piccolo, bianco in viso, come rinchiuso in se stesso, Leone. Sono le quattro in punto…».
Drammatica la scena che descrive il dolore dei parenti dei cinque uomini della scorta. «Piangono – scrive Pansa – e parlano con i loro morti. La mamma di Zizzi dice: “Franco, Franco, dimmi qualche cosa. Mi hai chiesto tante volte di aiutarti e io sono qui. La pallottola che ti ha ucciso ha ucciso anche me”. Poi un grido: “Franco mio, amore mio. Amore mio”».
Straziante anche il pianto dei parenti delle altre vittime.
Poi la messa finisce. «Un lungo silenzio – racconta ancora Pansa – fuori ordinanza, suonato da un trombettiere della polizia. Poi le bare se ne vanno. Lungo la navata. Le accompagnano pianti, lamenti, un paio di grida isolate: “Assassini, li avete uccisi”. Poi una tempesta di applausi che prorompe. Eccole all’aperto, incontro alle bandiere che si intravedono sul fondo della piazza: bandiere bianche dei giovani democristiani, bandiere rosse dei giovani comunisti. I cinque morti lasciano questa Roma che sembra già averli dimenticati». (…)
Scrivi un commento