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SCIENZA STORIA & NOI

«Più evoluto sarà lei!»: l’eterno confronto tra specialisti e generalisti

In un contesto ambientale in rapida frammentazione e prossima dissoluzione, gli adattamenti acquisiti dall’orso polare (Ursus maritimus) durante l’evoluzione, quelli che gli hanno garantito una posizione di superpredatore in un ambiente estremo, sono gli stessi che ormai ne complicano il presente e ne comprometteranno presto il futuro (immagine dalla rivista Nature, 2024)

In un contesto ambientale in rapida frammentazione e prossima dissoluzione, gli adattamenti acquisiti dall’orso polare (Ursus maritimus) durante l’evoluzione, quelli che gli hanno garantito una posizione di superpredatore in un ambiente estremo, sono gli stessi che ormai ne complicano il presente e ne comprometteranno presto il futuro (immagine dalla rivista Nature, 2024)

cura di Roberto Macchiarelli

R. Macchiarelli(Paleoantropologo, già professore ordinario al Dipartimento Geoscienze dell’Università di Poitiers e al Muséum di Storia Naturale di Parigi)

SENZA PRESTARCI attenzione, ci confrontiamo quotidianamente con chi è, o si propone come tale, uno specialista, poco importa il dominio di competenza, e chi ammette invece di districarcisi appena in quel dato campo, come magari in diversi altri, di conoscere quel tanto che possa tornare utile, quando e se necessario. Difficile dire in che proporzione questi ultimi siano rispetto ai primi, ma è evidente che entrambi coesistono e che, in principio, non si contrappongono. Ma spostiamoci dalla società alla natura.
Nella storia della Vita, quella tra specialisti e generalisti è una partita che si gioca da sempre, certamente dal rumoroso arrivo in scena, oltre mezzo miliardo di anni fa, di organismi predatori in via di specializzazione, con i quali le prede hanno cominciato a giocare a nascondino, escogitando via via soluzioni, adattamenti più fini ed astuti, ai quali i predatori hanno però a loro volta risposto elaborando strategie altrettanto originali ed efficienti, in un confronto senza esclusione di colpi, senza soste, senza fine. Insomma, una sorta di corsa agli armamenti in cui tutto cambia, perché tutti evolvono, cioè adattano ogni volta qualcosa – almeno per quanto possibile compatibilmente con i limiti imposti dall’ambiente – ma tutto resta in qualche modo fermo proprio in virtù della co-evoluzione. Come nella favola Attraverso lo specchio, di Lewis Carroll (pseudonimo di Charles L. Dodgson), ove Alice tenta di raggiungere la regina ma non ci riesce perché, pur correndo, rimane sul posto. Come andare in senso contrario a quello di una scala mobile. Un secolo dopo, l’immagine di Alice in azione, ma ferma, ha ispirato l’ipotesi chiamata appunto “Regina Rossa” elaborata dal biologo evoluzionista americano Leigh Van Valen: in un contesto dove l’ambiente è in costante evoluzione (clima, risorse, parassiti…), gli organismi devono evolvere, “correre” verso nuovi adattamenti per rimanere in equilibrio in seno all’ecosistema. Ma se tutto si muove approssimativamente nella medesima direzione, se tutto e tutti evolvono, le dinamiche interspecifiche sostanzialmente non cambiano e tutto sembra rimanere dov’è e com’è, come in un’istantanea di una realtà apparentemente inanimata, dietro la quale tutto invece si agita. È qui che delle sottili differenze tra specialisti e generalisti possono fare la differenza.

Il nostro cane, come i suoi antenati membri della sottofamiglia dei canini, la cui origine nordamericana data ad almeno 35 milioni di anni fa, dal punto di vista alimentare è rimasto piuttosto un generalista e, nel corso dell’evoluzione, non ha sviluppato quelle specializzazioni che, dopo un periodo di grande successo, hanno invece condotto all’estinzione tutti i suoi parenti più stretti, membri delle altre due sottofamiglie della famiglia dei canidi (immagine dalla rivista Science, 2019)

Il nostro cane, come i suoi antenati membri della sottofamiglia dei canini, la cui origine nordamericana data ad almeno 35 milioni di anni fa, dal punto di vista alimentare è rimasto piuttosto un generalista e, nel corso dell’evoluzione, non ha sviluppato quelle specializzazioni che, dopo un periodo di grande successo, hanno invece condotto all’estinzione tutti i suoi parenti più stretti, membri delle altre due sottofamiglie della famiglia dei canidi (immagine dalla rivista Science, 2019)

Le prime evidenze di Homo neanderthalensis provengono dal sito spagnolo di Atapuerca Sima de los Huesos e datano a circa 430 mila anni fa (stella verde). All’epoca, l’Eurasia era gelida (stadio isotopico OIS 12). Da allora e fino alla loro estinzione avvenuta intorno a 40 mila anni fa (stella nera, durante l’OIS 3), insieme agli ecosistemi, i Neandertaliani sono evoluti adattandosi a fasi climatiche cicliche che hanno visto l’alternanza di picchi glaciali (in basso) e di fasi interglaciali con temperature anche superiori alle attuali (in alto) (immagine modificata dalla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences USA, 2015)

Le prime evidenze di Homo neanderthalensis provengono dal sito spagnolo di Atapuerca Sima de los Huesos e datano a circa 430 mila anni fa (stella verde). All’epoca, l’Eurasia era gelida (stadio isotopico OIS 12). Da allora e fino alla loro estinzione avvenuta intorno a 40 mila anni fa (stella nera, durante l’OIS 3), insieme agli ecosistemi, i Neandertaliani sono evoluti adattandosi a fasi climatiche cicliche che hanno visto l’alternanza di picchi glaciali (in basso) e di fasi interglaciali con temperature anche superiori alle attuali (in alto) (immagine modificata dalla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences USA, 2015)

Se, durante un periodo particolarmente freddo di diverse migliaia di anni (com’è normalmente la durata di un cosiddetto “stadio isotopico dell’ossigeno”, OIS, parametro utilizzato appunto per scomporre la fasi climatiche del passato), la selezione naturale favorisce gli organismi capaci di limitare la dispersione del calore – per esempio, quelli dotati di una spessa pelliccia e/o che hanno messo a punto meccanismi fisiologici ad hoc di termoregolazione – quegli organismi saranno particolarmente efficienti, competitivi, perché specializzati, cioè con caratteri derivati – detti appunto “evoluti” rispetto alla condizione dei loro antenati – ed avranno maggiore successo biologico perché in fase con l’ambiente. Nello stesso ecosistema, non tutti saranno però in grado di conformarsi con risultati comparabili alle pressanti esigenze imposte in questo caso dai rigori del clima. Ma, una volta esaurito il ciclo glaciale (corrispondente ad uno stadio OIS con numero pari) ed entrati in un altrettanto lungo periodo temperato, quando non addirittura in regime sub-tropicale (indicato da un numero di stadio dispari), alle stesse latitudini l’ambiente si modificherà gradualmente e quelle caratteristiche derivate, evolute, quegli adattamenti un tempo utili diventeranno obsoleti, stridenti con le nuove condizioni e sollecitazioni, il tutto sotto l’occhio attento della selezione naturale: a quel punto, un antico vantaggio si trasformerà in un serio problema di difficile soluzione, talvolta senza soluzione.
Specie su tempi relativamente corti (dal punto di vista dell’evoluzione), gli specialisti hanno diversi vantaggi, sono re nel loro dominio, ma prendono seri rischi quando il vento gira perché, in genere, non è facile, non è possibile reinventarsi: nel caso dell’adattamento termico, aver riempito il guardaroba di abiti pesanti per poi volersene disfare sperando di pescare rapidamente in un angolo una T-shirt dimenticata, ora più adatta al nuovo corso, non è sempre cosa fattibile, non per tutti.
I generalisti, invece, mai veramente ben equipaggiati, oscillano spesso pericolosamente sul bordo del precipizio, subendo disequilibri demografici fino a lambire l’estinzione, ma, con un po’ di fortuna, magari se la cavano passando tra le pieghe della selezione naturale e, rispetto agli specialisti, sono quelli che certe volte hanno più possibilità di attraversare il tempo. Succede che, in concomitanza con una crisi ambientale importante e prolungata, alcune specie diventino tanto esigue da scomparire nel registro fossile, per poi riapparire in filigrana millenni dopo, come se nel frattempo si fossero addormentate, spente: con riferimento ad un passo del Vangelo, i ricercatori le chiamano “specie Lazzaro”.
Tra i primati – i membri dell’ordine zoologico al quale apparteniamo – quelli che si adattano a mangiare un po’ di tutto, anche cibo di mediocre qualità reperibile in qualsiasi supermercato della natura, si spostano poco nel territorio, limitando i rischi di predazione; viceversa, gli specialisti della buona tavola, quelli esigenti che si servono solo da pochi fornitori esclusivi, devono allargare considerevolmente il loro raggio d’azione per soddisfare il palato, esponendosi dunque a rischi considerevoli.
Un classico degli specialisti è quello di diventare nel tempo sempre più grandi (secondo quella che è nota come “regola di Cope”, dall’omonimo paleontologo americano), opzione evolutiva che, effettivamente, per un po’ offre indubbi vantaggi, che si sia predatori o no (la taglia imponente di alcuni erbivori può scoraggiare l’azione predatoria). Come nella straordinaria storia degli antenati del nostro cane.
I primi rappresentanti della famiglia dei canidi apparvero in America del nord intorno a 40 milioni di anni fa, verso la parte terminale dell’epoca chiamata Eocene. Inizialmente, costituivano due sottofamiglie, entrambe dal nome piuttosto bizzarro – esperocionini e borofagini – mentre gli antenati diretti dei nostri amici a quattro zampe – i canini, probabilmente originati dagli epero – si diffusero appena un po’ più tardi e formarono una sottofamiglia separata, all’evidenza non in competizione diretta con le altre due.
Per diversi milioni di anni, espero e boro si diversificarono ed espansero, con notevole successo evolutivo testimoniato da una crescente biodiversità. Nel tempo, ciò che li contraddistinse fu la tendenza a privilegiare sempre maggiormente una dieta carnea: più specializzavano la morsa lacerante dei denti carnassiali (coppia ultimo premolare superiore-primo molare inferiore) in una tenaglia via via più voluminosa, più diventavano esigenti, più dovevano competere con altri predatori – come i felidi – più tendevano ad aumentare di taglia per imporsi con maggiori probabilità di successo.
E, fino ad un certo punto, il gioco fu virtuoso, e funzionò. Poi, dato il suo impatto sull’ecosistema in termini energetici, il meccanismo superò la soglia critica di tolleranza ambientale e le due tendenze che covariavano, un tempo sinonimo di successo evolutivo – aumento della taglia ed aumento della diversità – si scollarono ed una invertì la traiettoria divenendo decrescente: più la taglia aumentava, più ci si specializzava come ipercarnivori, più la diversità si riduceva in entrambe le sottofamiglie, fino ad un impoverimento biologico che si concluse con la loro estinzione globale associata al raggiungimento del massimo della taglia rispetto ai loro predecessori. Troppo tardi per riconvertirsi: la specializzazione impose un’ipertrofia che condusse inesorabilmente alla sparizione (prima gli espero, poi i boro), stessa sorte che, tra gli altri, nel Miocene condannò il massimo superpredatore africano di sempre, lo ienodonte Simbakubwa. Gli antenati del nostro Canis lupus familiaris sopravvissero invece all’ombra degli ipercarnivori, raccogliendone le briciole e comportandosi come generalisti capaci di sfruttare un più ampio spettro di risorse, dunque adattandosi meglio ai cambiamenti ambientali. Non furono mai re, ma intanto oggi passano le serate sul nostro canapè.
Quid degli umani? Prendiamo il caso dei nostri cugini neandertaliani. Si è detto che l’irrigidimento del clima iniziato qualche migliaio di anni prima della loro estinzione – oggi stimata intorno a 40 mila anni fa, o poco meno – sia stato un fattore determinante. Eppure, “predatori alfa” specializzati nella caccia, i Neandertaliani hanno attraversato oltre 400 mila anni di fluttuazioni climatiche e ambientali, adattandosi tanto alle fasi più fredde mai prodottesi in Eurasia nel corso degli ultimi milioni di anni (come durante il terribile OIS 12), quanto a quelle più calde (come durante l’OIS 11 e l’OIS 5e), dove le temperature medie furono perfino superiori alle attuali, anche se ci si arrivò in migliaia e migliaia di anni, non in meno di un secolo. Dei “generalisti specializzati”, dunque, frammentati in piccoli gruppi sempre sul filo della scomparsa, ma testimoni nel tempo di mondi tanto diversi che si sono succeduti senza soluzione di continuità… fino ad oggi, ove maîtres du jeu siamo noi, la nuova specie sapiens, sottospecie sapiens.

 Lo ienodonte Simbakubwa kutokaafrika – la cui sagoma è qui rappresentata accanto a quella di un umano – visse in Africa durante il Miocene, circa 15 milioni di anni fa. Si tratta probabilmente del superpredatore mammifero terrestre di taglia massima, visto che alcuni esemplari potevano raggiungere il peso di ben 1500 kg, superiore a quello massimo dell’attuale orso polare (immagine dalla rivista Nature, 2019)

Lo ienodonte Simbakubwa kutokaafrika – la cui sagoma è qui rappresentata accanto a quella di un umano – visse in Africa durante il Miocene, circa 15 milioni di anni fa. Si tratta probabilmente del superpredatore mammifero terrestre di taglia massima, visto che alcuni esemplari potevano raggiungere il peso di ben 1500 kg, superiore a quello massimo dell’attuale orso polare (immagine dalla rivista Nature, 2019)

Intanto, a proposito di cicli ambientali ed adattamenti, nell’arco delle due ore circa di redazione di quest’articolo sono state immesse nell’atmosfera circa 4 milioni di tonnellate supplementari di CO2 (tralasciamo poi gli organocloruri, quelli che, raggiunta la stratosfera, interferiscono direttamente con gli equilibri chimici dell’ozonosfera, scudo primario, insieme al campo magnetico, alle radiazioni solari a bassa lunghezza d’onda nocive per la vita).
Due volte sapienti, nell’attuale biodiversità noi siamo ben specializzati, altro che generalisti: in quanto distruttori professionisti, siamo infatti, e lo resteremo, imbattibili! Ma sarebbe molto, molto meglio per tutti che non fossimo poi tanto “evoluti”.

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