ILNUOVOPAESE.IT dell'11/17 luglio 2024, Numero 28 (Anno XIV) - IN COPERTINA
SCIENZA STORIA & NOI – Pianeta Terra? Un’officina a cielo aperto
a cura di Roberto Macchiarelli
(Paleoantropologo, già professore ordinario al Dipartimento Geoscienze dell’Università di Poitiers e al Muséum di Storia Naturale di Parigi)
LA COPERTINA del 26 maggio 2011 della rivista The Economist, il noto settimanale d’informazione politico-economica, rappresentava il nostro pianeta come un’immensa officina a cielo aperto accompagnata dal titolo «Benvenuto Antropocene», seguito nell’articolo dal sottotitolo «Gli umani hanno cambiato il modo di funzionamento del mondo. Ora è tempo che cambino anche il modo di pensare ad esso».
Negli ultimi anni il tema dell’Antropocene – la cosiddetta “epoca recente dell’Uomo” – ha travalicato il perimetro scientifico tradizionale delle scienze della Terra. Concepito peraltro per divenire oggetto di dibattito sociale, economico, filosofico, politico (il tanto discusso “Green Deal”, o “Patto Verde” europeo). Quest’evoluzione è certamente positiva poiché ha consentito che la tematica dell’impatto umano sul pianeta uscisse dai laboratori di ricerca e raggiungesse le nostre case, interessasse le famiglie, la scuola, divenendo materia di discussione, di confronto, d’educazione, rimettendo addirittura in causa alcune nostre vecchie abitudini e comportamenti individuali (l’uso dell’acqua, il trattamento dei rifiuti, il fumare in spiaggia…).
Tuttavia, i contenuti della questione si sono andati rapidamente scollando tra gli scienziati e la società. I primi dibattono la verosimiglianza e congruità del termine Antropocene come unità crono-stratigrafica di una nuova “Epoca” in seno al cosiddetto “Periodo Quaternario” (gli ultimi 2,6 milioni di anni), successiva all’attuale Olocene (iniziato 11 mila e 700 anni fa, alla fine del Pleistocene). In pratica, il punto è identificare e caratterizzare geologicamente una nuova pagina della storia globale della geosfera. Il dibattito sociale, cui contribuiscono comunque anche i ricercatori – specie i fisici modellizzatori del clima e gli ecologi – si è invece concentrato sul cosiddetto “riscaldamento globale” e sugli effetti delle attività umane sugli ecosistemi, in particolare sulla biosfera.
Anche se l’impatto umano sullo strato superficiale del pianeta comincia ad essere quantitativamente e qualitativamente importante in termini geologici, la bocciatura più recente dell’Antropocene come nuova unità crono-stratigrafica formale è stata sancita dalla Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS-IUGS) proprio nel marzo scorso. Attenzione, non si tratta di una bocciatura definitiva, certamente non di un rifiuto dell’evidenza di una “firma” umana sempre più profonda, quanto piuttosto dell’attuale mancanza di consenso sul da quando (l’epoca neolitica? la conquista delle Americhe? la rivoluzione industriale? i primi esperimenti nucleari?) e sull’identificazione di un sito, di un livello guida di riferimento reperibile senza ambiguità su scala planetaria. In altri termini, un fenomeno che ha lasciato un’impronta, per dire, in Australia, o in Europa occidentale, non può essere eretto a nuova “Epoca” (e neppure a nuova Età, sub-unità geo-cronologica come l’attuale “Meghalayano”, nel quale viviamo da 4 mila e 200 anni). Come si dice, affaire à suivre.
Il dibattito sociale è più contingente e pragmatico: l’impatto umano sugli ecosistemi e sulla biosfera è ormai ben misurabile e di portata eccezionale e, secondo i più, andrebbe dunque contrastato, attraverso leggi, regole, nuovi modi di funzionare, cambiamenti nelle attività produttive, in quelle agricole, addirittura nei nostri comportamenti individuali.
Per sua propria natura, la questione del clima è molto complessa. Sappiamo bene che fluttuazioni importanti si sono registrate anche nel passato (se appena 14 mila anni fa le isole britanniche potevano essere raggiunte a piedi, per esempio, vuol dire pur qualcosa in termini paleoclimatici e paleoecologici). Tuttavia, innegabilmente, l’accelerazione dei fenomeni che si sta verificando da meno di un secolo (in particolare, l’aumento delle temperature negli strati superiori degli oceani e il suo impatto sull’atmosfera) non è mai stata registrata nei periodi storici precedenti, anche se disponiamo di rilevamenti ad alta risoluzione (misure delle variazioni dei rapporti isotopici dell’ossigeno). Altro parametro critico sotto osservazione è il rapido aumento del livello di acidità degli oceani, con effetti drastici sulla disponibilità dei costituenti primari dell’esoscheletro degli invertebrati (alla base della catena trofica, dunque alimentare). Siccome il clima influenza l’ambiente e quest’ultimo determina fluttuazioni importanti nella diversità degli organismi, si stima che l’effetto dell’accelerazione del complesso di questi fenomeni sia geologicamente equiparabile ad un evento di tipo catastrofico come quelli causati nel passato su scala macro-regionale dall’impatto di un bolide extraterrestre o da un’intensa e prolungata fase di vulcanismo.
L’accelerazione verso la catastrofe si può fermare?
Per l’impatto sulla biosfera, la contabilità dei “morti” e dei “ferit”’ per i quali le nostre attività sono direttamente o indirettamente chiamate in causa è piuttosto semplice, quanto drammatica. Durante gli ultimi secoli, in termini di erosione della biodiversità, la trasformazione dei “biomi” in “antromi” (cioè in sistemi naturali antropizzati) ha determinato la perdita dell’ 83per cento dei mammiferi terrestri, dell’80 per cento dei mammiferi marini, il 50 per cento dei macro-organismi vegetali, il 15 per cento dei pesci. Insomma, l’abbiamo ben semplificato il nostro pianeta! E possiamo fermarci qui.
Tutto questo rilancia la questione, non certo solo economica, del rapporto tra sviluppo (che dovrebbe essere il più possibile di tipo “durevole”) e crescita (che sarebbe preferibile fosse subordinata allo sviluppo, e non viceversa) che, all’evidenza, non sappiamo – o non vogliamo – gestire in modo responsabile e che rischia di sfuggirci di mano. Un esempio fra i tanti: secondo rilievi di appena qualche mese fa, se ci si allontana anche di molte decine di chilometri dalla costa, in mare aperto, e si campiona il contenuto di un solo metro cubo d’acqua, si conteranno almeno 500 micro-elementi di materie plastiche.
The Economist non aveva dunque torto: è tempo che si cambi il modo di rapportarsi al nostro pianeta, comunque si voglia etichettare la nostra epoca.
Scrivi un commento