«Leggi tu, leggo anch'io... leggiamo insieme». I libri che rendono più ricca la nostra vita
Tra le cinquantacinque «città invisibili» di Italo Calvino c’è anche la nostra città
Questa volta il nostro “viaggio” tra i libri che prima o poi bisogna leggere si ferma tra le cinquantacinque «Città invisibili» di Italo Calvino. Il motivo – vi chiederete – di questa nostra “sosta”? Perché, come sostiene Marco Polo, uno dei due personaggi principali del libro, «anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.»
di Francesco Caroli
DICIAMO CHE che fu un caso che chi scrive entrò in una libreria, la «Laterza» di Bari, posta all’inizio di Via Sparano, una delle vie più eleganti del capoluogo pugliese, per acquistare «Le città invisibili» di Italo Calvino, nell’edizione tascabile Oscar Mondadori del 2002. Si era all’inizio di un dolce settembre, con le giornate ancora calde ma non più afose, ed era al sottoscritto stato appena affidato da un quotidiano il compito di condurre un’inchiesta giornalistica tra alcune città pugliesi, che doveva avere appunto il titolo del romanzo di Calvino.
La lettura di quel libro fu una folgorazione. Anche se sin da ragazzo vi era stato l’avvicinamento alle opere di Italo Calvino, con «Il sentiero dei nidi di ragno», seguito qualche anno dopo dalle «Cosmicomiche», le città invisibili rappresentarono senza alcun dubbio – anche in seguito – un momento di svolta nella pratica personale dello scrivere. Oltre all’inchiesta sulle città pugliesi (delle quali qui riproduciamo uno stralcio), la lettura del libro portò qualche anno più tardi a scrivere una specie di «poema» ispirato proprio dal prezioso “volumetto” (170 pagine nell’edizione tascabile Mondadori, alla quale si fa riferimento).
Ma vediamo – in sintesi – cosa sono «Le città invisibili» di Italo Calvino.
È un romanzo pubblicato per la prima volta nel 1972, dove l’autore ricorre alla tecnica della letteratura combinatoria (il lettore diventa centrale nella narrazione, trovandosi a “giocare” con lo scrittore), influenzato in questo suo modo di scrivere dall’avvicinarsi alla semiotica e alla corrente letteraria dello strutturalismo: Calvino scompone il racconto in tante piccoli tasselli di un puzzle quasi infinito che poi – ricollegati tra di loro – acquistano un senso sia da soli che insieme, riuscendo il lettore in tal modo a trovare un significato più ampio da quello rappresentato dalla lettura di un singolo capitolo. Tutto questo inserito da Calvino in una narrazione quasi fiabesca e – se vogliamo – con una scrittura semplice e molto infantile.
Si cade in questa dimensione fiabesca sin da subito, nel leggere il primo “quadro” delle «città e la memoria».
Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue di bronzo di tutti gli dei, vie lastricate di stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate si accorciano e le lampade multicolori s’accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh!, gli viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’essere stati quella volta felici.
Il punto di partenza del libro, e di ogni capitolo, è il dialogo pressante tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Khan (all’inizio e alla fine di ogni capitolo), che interroga il viaggiatore italiano sulle città del suo immenso impero. Marco Polo descrive così città reali oppure immaginarie, frutto della sua fantasia, che colpiscono ogni volta sempre più il Gran Khan. Il libro è ripartito in nove capitoli, ma vi è un’ulteriore divisione: ognuna delle cinquantacinque città (tutte hanno un nome di donna dall’intonazione classicheggiante: Isidora, Dorotea, Zaira, e così via) è suddivisa in base a una categoria, undici in totale, dalle “città e la memoria” alle “città nascoste”, dalle “città e il desiderio” alle “città e gli occhi”… Il lettore può così iniziare un gioco tutto suo con la struttura dell’opera, scegliendo di seguire un raggruppamento o un altro, la divisione in capitoli o in categorie, o saltando da una descrizione di un città all’altra. Lo stesso Calvino afferma infatti (in una conferenza del 1983 alla Columbia University a New York, utilizzata poi come introduzione all’edizione Oscar Mondadori), «che non c’è una sola fine delle Città invisibili» perché «questo libro è poliedro, e di conclusioni ne ha un po’ dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli». La spiegazione di questo particolare sviluppo della narrazione lo precisa lo stesso Calvino: «Nelle Città invisibili non si trovano città riconoscibili. Sono tutte città inventate… Il libro è nato un pezzetto per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie che mettevo sulla carta, seguendo le più varie ispirazioni». Ma perché un libro sulle città? Per chiedersi «che cosa è oggi la città, per noi?». «Penso» precisa Calvino, «d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città… Le Città invisibili sono un sogno che nasce nel cuore delle città invivibili» per «scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città». «Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni di un linguaggio, le città sono luoghi di scambio… non soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il mio libro si apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici».
Sarebbe logico terminare questo nostro breve “excursus” ne Le città invisibili di Calvino andando nelle “città infelici” che ci presenta l’autore, leggendo insieme la parte finale del libro, significativa se vogliano di tutta quanta l’opera. Il capitolo è il nono, cioè l’ultimo, quello delle «città nascoste», che si apre con «le città e i morti».
Il Gran Khan… dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può che essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Questa “conclusione” ultima alla lettura de Le città invisibili ce la sconsiglia lo stesso Calvino: «Quasi tutti i critici si sono soffermati sulla frase finale del libro… Dato che sono le ultime righe, tutti hanno considerato questa come la conclusione, la “morale della favola”». Ma il libro, ricorda, è «fatto a poliedro». «Certo, se questa frase è capitata in fine del libro non è a caso, ma cominciamo col dire che quest’ultimo capitoletto ha una conclusione duplice, i cui elementi sono entrambi necessari: sulla città d’utopia (che anche se non scorgiamo non possiamo smettere di cercare) e sulla città infernale». Quindi, conclude Calvino, c’è un’altra via: «Quella che sostiene che il senso di un libro simmetrico va cercato nel mezzo».
Concludiamo quindi questa “riflessione” su Le città invisibili di Italo Calvino, leggendo – come consiglia l’autore – a “caso” un’altra pagina, cercando di trarre dalla sua lettura il “senso” di tutta quanta l’opera, che rimane fondamentale per un approccio strutturale alla dimensione naturale nella vivibilità delle nostre città.
Apriamo perciò il libro nel mezzo, e precisamente su una sezione delle “città e gli scambi”, quella che prende il nome di Smeraldina.
Più difficile è fissare sulla carta le vie delle rondini, che tagliano l’aria sopra i tetti, calano lungo parabole invisibili ad ali ferme, scartano per inghiottire una zanzara, risalgono a spirale rasente un pinnacolo, sovrastano da ogni punto dei loro sentieri d’aria tutti i punti della città.
Questa che segue fu la prima “puntata” dell’«Inchiesta sulle città invisibili» in Salento, pubblicata domenica 6 ottobre 2002 da «Paese Nuovo», quotidiano regionale pugliese allegato all’edizione nazionale de «l’Unità». E riguardò Tricase. Seguirono poi Melpignano, la città che inventò la «Notte della Taranta», e Leverano. Il motivo di questa inchiesta è in un preambolo che spiega il retropensiero posto come editoriale a tutti gli articoli dell’inchiesta. «Esiste un Sud, una Puglia fatta di uomini e donne che credono di far crescere la speranza di un futuro migliore, e per questo combattono, cadono, si rialzano e possono forse anche vincere. Ma esiste, è certo, un Sud, una Puglia, incapace di riscattarsi, vittima di falsi miti, chiusa nelle sue antiche e moderne schiavitù».
Quando da Tricase partì il pullman di Romano Prodi per sconfiggere il Polo
NEL SALENTO vi è una città che sembra fatata. «Chi viene a Tricase è poi difficile che se ne vada. Non parliamo poi di chi qui ci è nato»: è il pensiero di molti nella terra del Capo di Leuca e dell’intero Salento. Un pensiero che sembra appartenere anche al fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi. Sì, il professore bolognese, nel cercare un posto da dove far partire il suo mitico pullman, che lo porterà poi alla vittoria alle Politiche del ’96 sul Polo di Berlusconi e alla formazione del primo governo di centrosinistra, pensò proprio a Tricase. Il suo lungo viaggio iniziò dal paese della grande quercia vallonea il 17 marzo del ’95, per poi districarsi vittorioso attraverso l’intera penisola, sino alla conquista di Palazzo Chigi. Tre anni dopo, il 17 gennaio del ’98, il buon professore Romano Prodi ci tiene a non smentire il pensiero qui dominante, di vivere cioè in un luogo incantato.
Ritorna infatti a Tricase da capo del governo: il primo governo italiano che vede al suo interno la presenza qualificante degli eredi del vecchio Partito comunista. Ma per Prodi sono altri i fatti da rimarcare con forza davanti agli abitanti della città da dove partì la sua grande cavalcata con tutto il centrosinistra.
«Siamo di nuovo qui, a Tricase, al cinema Aurora, come tre anni fa, quando iniziò la nostra avventura e quando insieme decidemmo di lavorare per costruire l’Italia che vogliamo», ricorda in quell’occasione il premier dell’Ulivo. «Sono passati tre anni e siamo ritornati per misurare insieme il cammino compiuto e quello che ancora ci resta da compiere».
E giù a elencare le cose già fatte: «Questo è innanzitutto un giorno di bilanci, e siccome il bilancio è largamente positivo, questo è un giorno di festa. Tre anni fa il Paese era in una crisi politica, economica e morale gravissima. Tutti gli indici della nostra finanza pubblica e della nostra economia erano contro di noi e dicevano che mai avremmo potuto cogliere l’obiettivo europeo. Tutti intorno a noi, e moltissimi fra gli italiani, erano convinti, e rassegnati, che il declino dell’Italia fosse inarrestabile. Tre anni fa l’Italia era attraversata da una gravissima crisi politica, legata al fatto che neppure i nuovi sistemi elettorali sembravano in grado di garantire la capacità di governo del Paese».
«Tre anni fa», ricorda ancora Prodi in quel giorno felice a Tricase, dove si cantano le lodi al centrosinistra, «la tensione era altissima e le riforme erano usate dai protagonisti della vita politica più come un minaccioso terreno di scontro e come un’arma da agitare in faccia al nemico che come una sfida importante alla capacità e al senso di responsabilità della classe politica. Fu qui, in quel quadro, che per fortuna oggi ci sembra lontanissimo, che noi decidemmo di impegnarci per il nostro Paese e per l’Italia che vogliamo”.
Ma Romano Prodi mai avrebbe potuto immaginare come a volte la storia possa andare indietro sui suoi passi, in un tragico e oscuro ritorno al futuro. Mai forse avrebbe immaginato che la sconfitta di Berlusconi non sarebbe stata definitiva e che il Paese avrebbe dovuto affrontare una seconda “emergenza”.
È ora forse il caso che un secondo pullman dell’Ulivo, se mai ce ne sarà un altro, riparti proprio da Tricase?
Nel frattempo, a Tricase, è partita da quindici mesi la prima amministrazione di centrosinistra, dopo due amministrazioni consecutivamente guidate da un sindaco di centrodestra, Luigi Ecclesia.
Il 27 maggio 2001 il candidato sindaco del centrosinistra, l’ingegnere Antonio Coppola, stravince al ballottaggio con circa il 67 per cento dei suffragi. Lo sostengono cinque liste: i Democratici di sinistra, il Partito popolare, i Democratici, una lista di giovani di sinistra e la lista civica Democrazia e civiltà. Coppola presenta alla cittadinanza un programma di cose da fare articolato su un discorso sulla dignità e contro le vecchie e le nuove schiavitù. «Quando ero bambino», scrive in quel discorso, «mi pareva che niente potesse cambiare. Avevo la sensazione che il mondo si ripetesse sempre… nel bene e nel male»; in una «continua altalena tra chi vuole dominare, comandare, disporre dei beni e della vita altrui e chi crede nella forza del bene comune». Perciò il candidato Coppola si dichiara pronto a «lavorare per chi meno può e meno ha». Per quel lato oscuro della luna che ha il «volto dei più deboli, di chi è malato e non ha voce», che ha lo sguardo «dei disabili, dei sofferenti, delle minoranze, dei diversi di ogni età, di chi subisce il dramma dello sfruttamento, dell’emarginazione, della droga, di chi si perde e si confonde». «Noi ci impegneremo», è la promessa di Coppola, «per illuminare l’altra faccia della luna».
E parte così, dietro quella promessa, la campagna elettorale più strana, più coinvolgente che mai un paese del Sud avesse potuto immaginare: The dark side of the moon dei Pink Floyd ne diventa la colonna sonora ed è la stessa parola d’ordine che appare su ogni manifesto elettorale, dei veri e propri pugni nello stomaco. Il primo manifesto, con una frase di un Anonimo salentino: «Avere occhi per guardare e orecchie per sentire e una bocca per parlare e una testa per pensare e sognare e sognare e sognare». Il secondo manifesto: «Sette idee per non farsi piegare». Il terzo manifesto, che si rivolge direttamente al cuore dell’elettorato: «Donne, care donne, dove siete?».
E sono le donne che trascinano letteralmente Antonio Coppola sulla poltrona di primo cittadino di Tricase. Come poteva essere altrimenti in una terra dove il giovane regista Edoardo Winspeare, di Tricase, nel film “Sangue vivo”, ambientato nel Salento, fa dire al protagonista, suonatore di tamburello e di tarantolate nelle feste di paese, che la donna è cosa sacra? E poi l’ingegnere Coppola, consapevole che la sua vittoria la deve in massima parte al consenso non solo elettorale raccolto tra i cittadini di sesso femminile, nomina nella sua giunta due donne come assessori: la popolare Annamaria Girasoli, vicesindaco e con delega alle Politiche sociali, e la verde Grazia Francescato, parlamentare e responsabile nazionale del partito ecologista, che accoglie l’invito del neo sindaco di ricoprire l’incarico di assessore all’Ambiente.
(da «Stampa – Quel modo nuovo di fare informazione» di Francesco Caroli – 2017, pagg. 97-100)
Le città del desiderio e del lamento
Torno da paesi
lontani, passando
da Calvino
a Paul Auster
e finalmente
approdare
al Milione
di Marco Polo?
Mi affaccio così su questa
che è la mia città, affossata
e negata, e qui m’appare
una città vuota, allucinata
e invisibile.
Lontano, molto lontano,
allineati l’un con l’altro,
forbice che spezza
pensieri inafferrabili,
i paesi del mio desiderio
e del lamento.
Lì si staglia la rocca di Dulcinea
e un pianto che si fa inespugnabile;
là dalla tundra di Lara sempre s’espande
il freddo e impietoso canto che infinito
percuote e fa male.
E allora, anche a me, curioso
il Gran Kan domanda: «Torni
da paesi lontani, attraversi tundre,
deserti e catene di montagne. Perché
ti muovi da qui?»
E ripercorrendo le tappe dei miei viaggi,
rispondo: «Anch’io su quel balcone
vedo un uomo. Sarei potuto essere io
se non avessi attraversato
il mondo. E anche lì su quella strada,
in quella piazza, cammina qualcuno. Sarebbe
potuto essere il mio futuro».
«Quello che vedi sarebbe stato
il tuo futuro! Ora non è che
passato. E da questo presente
ne sei escluso. Viaggi anche tu
per rivivere il tuo passato e ritrovare
il tuo futuro?»
«Anch’io quello che vedo si riflette
in negativo sullo specchio
dei miei tempi. Lo guardo
per riconoscere il poco che è mio,
il molto che non ho avuto
e non avrò. E così ricostruire
la montagna del mio futuro»*.
© Francesco Caroli (3/4/2014)
* Le citazioni finali e nel testo sono liberamente tratte da Le città invisibili di Italo Calvino, Oscar Mondadori, Milano 1993, pp. 26-27. Tutti i diritti sono riservati © Francesco Caroli
Da «Le parole e il loro silenzio (… e lo sfrigolio che fa prima il pensiero)» di Francesco Caroli – Montedit ed. 2016, pagg. 59-60.
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