ILNUOVOPAESE.IT del 19/25 dicembre 2024, Numero 51 (Anno XIV) - IN COPERTINA
Emigrati dalla “culla” africana. I primi passi dei nostri antenati
a cura di Roberto Macchiarelli
(Paleoantropologo, già professore ordinario al Dipartimento Geoscienze dell’Università di Poitiers e al Muséum di Storia Naturale di Parigi)
NELLA VERDEGGIANTE ondulata regione dell’Afar, nel nord-est dell’Etiopia, si trova una graziosa località, Ledi-Geraru, dotata di una piccola ma efficientissima e animata stazione ferroviaria internazionale, inaugurata nel 2013, cui potrete accedere facilmente per poi orientarvi verso qualsiasi punto del pianeta. Prima di iniziare la vostra avventura trans-continentale, se avete ancora un po’ di tempo, non esitate a fare un giretto nei dintorni. Magari, chiedete a qualcuno del posto se conosce LD 350-1 (troverete la sigla citata nella guida). Con un po’ di fortuna, Chalachew Seyoum, che per primo raccolse il reperto come membro del team di ricerca dell’Università dell’Arizona, è ancora da quelle parti e vi spiegherà che si tratta della porzione sinistra di una mandibola vecchia di 2,8 milioni di anni, ma con qualche dente ancora al suo posto, trovata in prossimità della stazione appunto nel 2013. Dopo avervi raccontato di che si tratta e perché questo reperto è tanto importante da essere menzionato nella vostra guida – dopotutto, potrebbe trattarsi del resto umano in assoluto più antico tra quelli scoperti finora, primato non da poco – aggiungerà che, a una trentina di chilometri in direzione sud-est, in un’altra piacevolissima zona turistica chiamata Hadar, che avrete probabilmente già visitato dopo aver pernottato ad Awash Station, 39 anni prima erano stati rinvenuti da Donald C. Johanson e collaboratori i resti della piccola Lucy, il celeberrimo Australopithecus afarensis…
Aspettate, qualcosa non quadra. Ricominciamo.
L’Afar è una delle regioni più aride del pianeta e, ammesso che riusciate mai a raggiungere Ledi-Geraru, non vi troverete alcuna stazione, ma un mondo minerale di sedimenti estesi a perdita d’occhio variamente deposti ed orientati secondo le dinamiche della tettonica e tirati a lucido dai capricci dell’erosione, paradiso geo-paleontologico dei ricercatori sulle tracce dell’origine e divenire del cespuglietto ominino di cui facciamo parte come ultimi arrivati (sarebbe meglio dire, come unici sopravvissuti): apparentemente, un’inezia periferica e tardiva nel gigantesco albero della vita; in realtà, a causa di un’unica specie – neanche a dirlo, proprio la nostra – un’apparizione in sordina divenuta nel corso degli ultimi 150 anni tanto rumorosa e ingombrante da impattare pericolosamente il resto della biosfera.
Siamo nella valle del Grande Rift, la cicatrice che attraversa l’Africa dell’est per oltre tremila chilometri dall’Eritrea al Mozambico. È vero che da tempo immemore la regione è inospitale, ma Chalachew Seyoum vi spiegherà che così non era tra la fine del Pliocene ed il Pleistocene antico, agli inizi del Quaternario, appunto tra 3 e 2 milioni di anni fa, quando, anche se oggi sembra inverosimile, c’era abbondanza d’acqua e le distese erbose e le boscaglie pullulavano di scimmie, giraffe, elefanti, ippopotami, gazzelle, zebre, straordinaria diversità sulle cui tracce s’incontravano invariabilmente predatori micidiali come il Dinofelis – il “felino terribile” – e immancabili gruppi di iene. E, cercandolo con attenzione, si poteva magari intravedere qualche raro essere umano dalle sembianze ancora non troppo distinte da quelle di un australopiteco, ma diverso invece per alcuni tratti comportamentali e biologici che si riveleranno rapidamente strategici.
La porzione di mandibola di Ledi-Geraru ha un’implicazione del tutto particolare: tra quelli rinvenuti sinora, è l’unico reperto fossile con l’etichetta “Homo” (secondo alcuni, ancora da certificare al 100%) proveniente da un livello stratigrafico un poco più antico di quello che marca la fine del Neogene (da -23 a 2,6 milioni di anni) e l’inizio del Quaternario, periodo nel quale ci troviamo attualmente (appunto, gli ultimi 2,6 milioni di anni). In quanto originati in seno alla biodiversità africana verso la fine del Pliocene e non più nel successivo Pleistocene, come a lungo ritenuto, noi umani siamo dunque pre-quaternari: in pochi ci avrebbero scommesso.
Nella storia del genere Homo, la nostra storia, Ledi-Geraru è idealmente la stazione da cui partire per spingersi per la prima volta al di fuori dell’Africa, intraprendendo un viaggio di almeno due milioni e mezzo di anni che, per tanti meno fortunati, perdura oggigiorno, talvolta in forma di odissea con sfumature di calvario.
Prima di prendere posto sul treno ad altissima velocità e di lanciarci verso nuovi orizzonti extra-africani, facciamo però un breve detour in direzione nord-ovest, verso il Mediterraneo, per visitare un altro straordinario sito dove, 2,4 milioni di anni fa, una piccola comunità soggiornò per qualche tempo lasciando poi dietro sé una ventina di rozzi strumenti litici di tipo “olduvaiano” e quasi trecento resti di fauna (soprattutto di bovidi e di equidi) con (micro)tracce di macellazione: siamo ad Aïn Boucherit, ad est di Algeri. Se, per semplicità, assumiamo l’Afar come “culla” (termine comunque non particolarmente apprezzato dai paleoantropologi) ed accettiamo lo scenario teorico secondo cui, già all’indomani della loro entrata in scena, alcuni umani possano essersi mossi in direzione dell’attuale Algeria, la distanza di circa 4.600 km (in linea d’aria, molti di più sul terreno) avrebbe potuto essere coperta con spostamenti annuali di appena 11,5 metri (in realtà, di qualche chilometro). Cosa che, dopotutto, si verificò, generazione dopo generazione (ne trascorsero quasi 15.000), senza che nessuno si rendesse conto di aver perfino superato delle barriere ecologiche.
Comunque siano andate le cose, è evidente che molto presto gli umani mostrarono una tendenza, un adattamento particolare alla mobilità come parte integrante delle strategie di sussistenza. All’epoca, e per la più parte della storia, noi umani siamo stati pochi, pochissimi, un numero insignificante. Allora perché alcuni, per piccoli gruppi, prendevano di tanto in tanto il rischio di spostarsi, magari d’isolarsi sfiorando l’estinzione? Per spirito di avventura, per curiosità, per la smania del conoscere? Piuttosto per necessità, in funzione della disponibilità stagionale delle risorse, per sfruttare nuove materie prime (quelle minerali necessarie alla produzione degli strumenti litici, per esempio), secondo le opportunità offerte dagli ambienti, essi stessi dinamici. Talvolta gli spostamenti avvenivano per caso, per dinamiche contingenti. Lo sciacallaggio prima, fonte primaria di approvvigionamento di proteine animali utili ad alimentare un cervello sempre più energivoro, e poi la caccia, via via meglio pianificata ed efficace – quando lo permisero le conquiste tecnologiche e l’organizzazione sociale – suggerivano di seguire i periodici spostamenti degli erbivori, pur mantenendosi a distanza di sicurezza dai predatori professionisti con diritto di prelazione, che all’epoca gli umani certamente non avevano. Una volta servitisi tutti, arrivava però il turno dei nostri antenati che, a differenza di chi li aveva preceduti, una volta la carcassa abbandonata anche dagli avvoltoi, con la destrezza di qualche appropriato gesto tecnico avevano la capacità di accedere a preziose risorse in genere precluse a tutti gli altri: il midollo osseo, la lingua, il cervello, anche se non si trattava certo di prodotti freschissimi.
Come ancora oggi, nel tempo ci si spostava perché lo imponevano le fluttuazioni climatiche, veri modellatori degli ecosistemi, che determinavano in modo intermittente ed imprevedibile la disponibilità delle risorse idriche che, a loro volta, dischiudevano od inibivano i passaggi, l’accesso agli ambienti, modificando i paesaggi ed arricchendo od impoverendo la diversità vegetale ed animale, così come le oscillazioni del livello medio marino (eustatismo) che, lentamente ma inesorabilmente, rimodellavano i confini delle terre calpestabili. Talvolta ci si spostava in seguito ad un’alluvione lampo, ad un incendio naturale, ma anche a causa della competizione con altri gruppi, con altri organismi, umani e non. Non lo si faceva invece per la pressione demografica, fattore rimasto insignificante fino a qualche millennio fa, o anche meno. Un po’ come le variazioni climatiche ed ambientali, le fasi di colonizzazione di un territorio erano intermittenti, spesso effimere, risultato temporaneo del breve spostamento di un piccolo gruppo che quasi mai si traduceva in stanzialità permanente, quanto piuttosto in tentativi di insediamento, a volte abortiti con la scomparsa locale di un’intera comunità.
Gli spostamenti non furono mai unidirezionali e, magari qualche migliaio o decina di migliaia di anni dopo, inconsapevoli, gli eredi dei primi “pionieri” ritornavano senza averne alcuna memoria proprio nei luoghi di origine dei loro predecessori, dove magari intanto si erano installati altri piccoli gruppi, talvolta costituiti da individui umani, sì, ma diversi per tratti somatici, comportamenti, modi di espressione, appartenenti addirittura ad una specie diversa.
Così, di generazione in generazione, la casualità degli spostamenti multidirezionali favorì nuove opportunità, dinamiche, stimoli adattativi, incontri e rimescolamenti genetici e culturali contribuendo notevolmente all’arricchimento della natura umana, all’evoluzione, a ciò che siamo divenuti. Ed intanto, gli umani penetravano in ambienti sempre più distanti e diversi da quelli in cui si erano mossi i loro antenati, lasciando via via la loro firma, raramente indelebile, più spesso in filigrana all’inchiostro simpatico.
Per definizione, nella nostra storia i primi “emigranti” furono dunque africani, e noi tutti ne siamo i fortunati discendenti. Ma, come abbiamo visto, in realtà non si può parlare di vere migrazioni, fenomeno invece alquanto recente legato, oltre che a diversi fattori socio-culturali (economia e conflitti inclusi), al divenire nel tempo su scala regionale di parametri demografici quali la densità per unità di superficie e la relativa pressione sulle risorse disponibili.
Tra le tante direzioni intraprese dai nostri antenati migranti, quella verso l’alba, la prima luce, ebbe conseguenze più che rilevanti per tutti i discendenti: i primi incertissimi passi mossi al di fuori del perimetro africano verso il lungo processo di colonizzazione del pianeta.
Non sappiamo esattamente quando e chi mise inconsapevolmente per primo il piede verso l’ignoto spingendosi attraverso l’attuale Egitto verso il Vicino Oriente, per poi allontanarsene sempre di più (a causa delle dinamiche tettoniche, in nessun momento nel corso degli ultimi milioni di anni la Penisola Arabica fu raggiungibile a piedi dal Mar Rosso, neppure durante i minima eustatici). Non abbiamo ancora ritrovate le tracce di questi “pionieri” per caso e non ne conosciamo neppure la specie di appartenenza. Sappiamo però che non c’erano frontiere e controlli d’identità, che ci si poteva spingere oltre per poi tornare indietro, magari millenni dopo, o anche di più, senza accorgersene.
Anche se imprevisto ed improvvisato, il lungo viaggio dell’umanità – delle umanità – dall’Africa alla Terra del Fuoco – la “fine del mondo” – era cominciato. È dunque tempo di prendere finalmente posto nella carrozza di Ledi-Geraru.
(Parte prima)
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