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SCIENZA STORIA & NOI

Tutti emigrati dalla “culla” africana. Noi, turisti per caso e senza guida

La ricostruzione delle fasi di popolamento umano del pianeta è un’avventura scientifica complessa in continua evoluzione cui contribuiscono équipes di ricerca di archeologi preistorici, paleoantropologi, paleogenetisti, geochimici, geocronologi, tafonomisti, paleontologi, archeozoologi e specialisti di diversi altri domini (immagine dalla rivista Science, 2021)

La ricostruzione delle fasi di popolamento umano del pianeta è un’avventura scientifica complessa in continua evoluzione cui contribuiscono équipes di ricerca di archeologi preistorici, paleoantropologi, paleogenetisti, geochimici, geocronologi, tafonomisti, paleontologi, archeozoologi e specialisti di diversi altri domini (immagine dalla rivista Science, 2021)

 a  cura di Roberto Macchiarelli

R. Macchiarelli(Paleoantropologo, già professore ordinario al Dipartimento Geoscienze dell’Università di Poitiers e al Muséum di Storia Naturale di Parigi)

UN VIAGGIO alla ricerca della prima evidenza assoluta di presenza umana al di fuori dell’Africa, quindi di quella per macroregione del pianeta: c’est parti!
Lasciata alle spalle la stazione di Ledi-Geraru, nella verdeggiante ondulata regione dell’Afar africano (lo ricordiamo, il sito è vecchio di 2,8 milioni di anni; cfr ilnuovopaese.it/tutti-emigrati-dalla-culla-africana-i-primi-passi-dei-nostri-antenati/), ed impressa la prima impronta in qualche parte dell’oggi martoriato Vicino Oriente, le tracce materiali più antiche dell’espansione dei nostri avventurosi primi “migranti” verso est – in una fase iniziale, piuttosto intorno alla fascia intertropicale, quindi in tutte le direzioni – dovrebbero seguire una sorta di tracciato centrifugo, con i siti progressivamente più recenti ubicati a maggiore distanza relativa dal centro di origine dell’espansione, e viceversa. Questa non è invece la realtà di campo perché, a causa dell’erosione e/o della mancata registrazione di un pur minimo segnale antropico in contesti sfavorevoli alla sedimentazione e alla fossilizzazione (come quelli tropicali, per esempio), nonché per il caso, per nostra ignoranza (siamo ben lontani dall’aver scoperto e capito tutto della storia dell’umanità), le evidenze a valore consensuale (quelle di un contesto certificato devono essere inequivocabilmente in situ e databili) sono sparse qua e là, piuttosto in disordine. Ricordiamo poi che, uscendo dalla casa madre africana, nessuno si è mai ricordato di chiudere il portone dietro di sé, permettendo dunque aleatorie dinamiche di inconsapevoli in ed out transcontinentali attraverso le generazioni senza indicazioni di frontiere.

Oltre 23 mila generazioni dei nostri “migranti”

Tanto i primi passi del genere umano, emerso circa 2,8 milioni di anni fa, quanto quelli dei primi rappresentanti della nostra specie sapiens, intorno a 300.000 anni fa, furono mossi nel continente africano (qui fotografato dalla Luna), punto di partenza del popolamento del pianeta ad opera di diverse specie delle quali, da qualche decina di migliaia di anni soltanto, siamo gli unici sopravvissuti (immagine dalla rivista Science, 2018)

Tanto i primi passi del genere umano, emerso circa 2,8 milioni di anni fa, quanto quelli dei primi rappresentanti della nostra specie sapiens, intorno a 300.000 anni fa, furono mossi nel continente africano (qui fotografato dalla Luna), punto di partenza del popolamento del pianeta ad opera di diverse specie delle quali, da qualche decina di migliaia di anni soltanto, siamo gli unici sopravvissuti (immagine dalla rivista Science, 2018)

Può fare sorridere ma, ad oggi, la più antica evidenza di presenza umana in contesto extra-africano non è stata messa in luce nel Levante (benché un livello archeologico datato 2,48 milioni di anni fa a Dawqara, nella valle giordana di Zarqa, sia un pretendente assai serio), o nella Penisola arabica, ma… nel nord della Cina, a ben 7.500 km (in linea d’aria) da Ledi-Geraru! Si tratta dei depositi sedimentari eolici di Shangchen, dove sono stati identificati 17 livelli con industria litica e resti di fauna vecchi di 2,12 milioni di anni. Ripetendo l’esercizio fatto per raggiungere l’attuale Algeria dall’Afar, in questo caso per coprire in circa 600.000 anni la distanza tra l’Africa orientale e il nord della Cina, oltre 23.000 generazioni dei nostri “migranti” avrebbero dovuto teoricamente spostare annualmente il loro campo base verso nord-est di qualcosa come 13 m (realisticamente, di qualche centinaio di metri, o anche di più, percorsi in modo intermittente, probabilmente su base stagionale). Ma, ancora una volta, non si tratta di un obiettivo, di una destinazione quella cinese, quanto piuttosto di uno dei tanti punti di arrivo temporanei raggiunti da piccoli gruppi mobili – dei quali ignoriamo ancora la specie per mancanza dei loro resti biologici fossilizzati – quasi sempre archeologicamente trasparenti, secondo traiettorie opportunistiche e contingenti.

Il primo popolamento delle diverse macroregioni del pianeta non fu in alcun caso il risultato calcolato di una “corsa” per raggiungere un obiettivo, né di “migrazioni”, quanto piuttosto quello di piccoli spostamenti opportunisti, intermittenti e multidirezionali, di piccoli gruppi strettamente legati a fattori contingenti, primo fra tutti le fluttuazioni nella disponibilità locale delle risorse (immagine dalla rivista Science, 2017)

Il primo popolamento delle diverse macroregioni del pianeta non fu in alcun caso il risultato calcolato di una “corsa” per raggiungere un obiettivo, né di “migrazioni”, quanto piuttosto quello di piccoli spostamenti opportunisti, intermittenti e multidirezionali, di piccoli gruppi strettamente legati a fattori contingenti, primo fra tutti le fluttuazioni nella disponibilità locale delle risorse (immagine dalla rivista Science, 2017)

Seguendo la topografia dei ritrovamenti extra-africani in ordine cronologico decrescente, il nostro treno ad altissima velocità è obbligato a zigzagare attraverso il Vecchio Mondo, certamente lambendo a nostra insaputa aree di occupazione antichissima non (ancora) identificate: si sa, l’assenza di evidenze non è evidenza d’assenza.
In termini cronologici, e non solo, un eccezionale punto repere si trova alle porte dell’Europa orientale, nell’attuale Georgia, dove presso il villaggio di Dmanisi sono stati rinvenuti resti umani, litici e faunistici molto ben conservati datati 1,8 milioni di anni fa. Siamo ad una latitudine di 41° N, contro gli 11° N della stazione di partenza ed i 34° N di Shangchen, all’altezza, per farsi un’idea, dell’attuale città di Foggia. Si tratta di un’occupazione piuttosto settentrionale forse di rappresentanti di Homo erectus (H. erectus georgicus? H. habilis georgicus?) avvenuta evidentemente durante una pulsazione climatica favorevole ad assicurare, almeno per qualche tempo, la sopravvivenza di comunità piccolissime dotate di risorse tecniche relativamente semplici (non c’era ancora il controllo del fuoco) ma, a giudicare dalle condizioni di un adulto necessitante per diverso tempo di assistenza per nutrirsi (cfr ilnuovopaese.it/solidarieta-compassione-e-pietas-tracce-preistoriche-delle-opere-di-misericordia/), socialmente organizzate e coese.
Da est verso ovest, dall’attuale Ukraina (come suggerisce il sito di Korolevo) alla Spagna (siti di Orce, Venta Micena, Barranco Léon, Fuente Nueva, Atapuerca Sima del Elefante, alcuni ancora sotto scrutinio) – o viceversa, almeno secondo alcuni ricercatori spagnoli che ritengono possibile l’intermittente presenza nel corso del Pleistocene antico di ponti di terra a livello dell’attuale stretto di Gibilterra con conseguente accesso diretto alla penisola iberica dall’Africa settentrionale –l’Europa fu visitata molto presto, forse già un milione e mezzo di anni fa, anche se le ripetute incursioni durante le fasi interglaciali furono probabilmente marcate da discontinuità. Di nuovo, l’identità dei primissimi “Europei” non ci è sempre nota, ma sappiamo che almeno Homo antecessor, forse derivato da erectus africano, aveva raggiunto la Sierra di Atapuerca 1,3 milioni di anni fa.

Nell’alternanza tra cicli climatici glaciali ed interglaciali, durante il Quaternario i volumi delle calotte e, di conseguenza, il livello medio marino planetario (variazioni eustatiche), si modificarono considerevolmente. Nelle fasi più fredde si registrò una forte espansione dei ghiacciai cui corrispose un abbassamento del livello marino fino a -130 m (come nel caso del planisfero dell’immagine). Queste dinamiche modificarono periodicamente i confini delle terre emerse creando connessioni temporanee che permisero la colonizzazione di territori altrimenti inaccessibili se non tramite navigazione o catastrofi naturali (immagine @PhysicsJ su modellizzazione NASA, 2019)

Nell’alternanza tra cicli climatici glaciali ed interglaciali, durante il Quaternario i volumi delle calotte e, di conseguenza, il livello medio marino planetario (variazioni eustatiche), si modificarono considerevolmente. Nelle fasi più fredde si registrò una forte espansione dei ghiacciai cui corrispose un abbassamento del livello marino fino a -130 m (come nel caso del planisfero dell’immagine). Queste dinamiche modificarono periodicamente i confini delle terre emerse creando connessioni temporanee che permisero la colonizzazione di territori altrimenti inaccessibili se non tramite navigazione o catastrofi naturali (immagine @PhysicsJ su modellizzazione NASA, 2019)

Come vedremo per il sud-est asiatico e l’Indonesia, anche le fasi di popolamento dell’Europa furono condizionate, diciamo pure determinate, dall’impatto dei cicli climatici (fasi glaciali ed interglaciali) sulle variazioni eustatiche (fino ad oltre 120 m di abbassamento del livello marino nelle fasi di massima espansione delle calotte), dunque sul profilo delle terre emerse (“continenti”) e sull’apertura o chiusura di passaggi percorribili. Fu così che, nel tempo, magicamente apparve dal mare, ed altrettante volte ne fu inghiottito, il Doggerland, regione biogeografica estesa in latitudine fino al nord dell’Inghilterra che, attraverso la distesa verdeggiante del canale della Manica, permise a qualche gruppo umano (H. antecessor? H. heidelbergensis?) di installarsi per la prima volta nell’attuale Norfolk intorno ad un milione di anni fa e di lasciare l’impronta di una passeggiata intorno ad Happisburgh, in prossimità di quello che allora era l’alveo del futuro Tamigi. Ma, qualche tempo dopo, chi si girò indietro magari per nostalgia delle coste normanne… si accorse che, rapidamente, la distesa verdeggiante attraversata dagli antenati era stata intanto inghiottita e non sarebbe riemersa che tra decine di migliaia di anni: allora meglio adattarsi, scordarsi la cucina francese, imparare l’Inglese.
Più o meno allo stesso momento in cui gli umani percorsero per la prima volta l’Europa, dei rappresentanti di Homo erectus – questa volta, la loro identità ci è nota – si spostavano invece a sud attraverso il Sundaland – equivalente al Doggerland europeo, ma più esteso – grosso modo intorno all’attuale Indonesia, camminando tra le isole di Sumatra, Giava, Bali, fino al Borneo, perché anche qui l’oceano si era ritirato di chilometri esponendo alla luce parte della piattaforma continentale… ma fino ad un certo punto: a differenza della Manica e del Mare del Nord, da queste parti si trovano da sempre delle fosse oceaniche, delle barriere che nessuna variazione di livello marino, neppure quelle con picchi di -130 m, permette di infrangere, a meno che non si navighi abilmente, cosa a quei tempi non ancora nelle competenze dei nostri antenati (fino a prova contraria).
Ma fu la natura a risolvere, in modo catastrofico, il problema del superamento dell’invisibile “barriera di Wallace”. Furono infatti i periodici tsunami che agitano le coste di questa remota area del pianeta a trascinare dai margini del Sundaland verso il largo, verso gli isolotti dell’adiacente regione biogeografica della Wallacea, qualche precaria zattera o zolla di terra e frasche con sopra, di tanto in tanto, anche qualche involontario turista, umano e non solo. Da quelle parti, in fondo, niente di cui stupirsi: il 14 gennaio 2022, per esempio, Lisala Folau, un falegname di 57 anni sorpreso sull’isola Atata dal maremoto generato dall’esplosione dell’Hunga Tonga, fu trasportato da onde di oltre 6 m ed abbandonato incolume – ma non esattamente contento – su quella di Tongatapu, distante 7,5 km. Sono probabilmente le medesime dinamiche che, in diversi momenti del Pleistocene antico, quasi senz’altro poco meno di 1 milione di anni fa, coinvolsero ripetutamente qualche incauto H. erectus strappandolo alla terraferma ed accompagnadolo suo malgrado fino all’isola di Flores (sito di Mata Menge), a sud dell’Indonesia, e di Luzon (sito di Kalinga), ad est, nelle attuali Filippine, dove gli antesignani di Lisala Folau generarono due nuovi modi di essere esseri umani in contesti insulari, peraltro piuttosto originali: H. floresiensis ed H. luzonensis, rispettivamente, mentre anche altri mammiferi si modificavano contestualmente attraverso le generazioni, quelli più grandi – come il proboscidato stegodonte – miniaturizzandosi, quelli più piccoli – come i roditori – ingigantendo. Insomma, un film dell’orrore.
Non c’è però tsunami che tenga in grado di trasportare degli animali terrestri di una certa taglia, umani o non, dalla Wallacea al Sahul, il plateau continentale che lega(va) Australia, Tasmania e Nuova Guinea, terre connesse in modo intermittente ma da sempre circondate da distese d’acqua d’infinita profondità a loro volta custodite da un invisibile perimetro di fosse oceaniche. E allora, come fare? Qui ci vuole proprio un’idea…: navigare, magari attraverso il Mare di Timor! Ma l’idea, almeno per quel che possiamo stimare, mise un po’ di tempo a prodursi, quel tanto che basta affinché, una volta arrivato e fatto un giretto tra Borneo e l’isola Sulawesi, fosse un altro tipo di essere umano, Homo sapiens – noi – ad attuarla. Ecco quindi che, generazione dopo generazione, traversata dopo traversata (bracci di mare estesi fino a circa 100 km che richiedevano quindi diversi giorni di navigazione), forse già un po’ meno di 100.000 anni fa le terre sconfinate dell’Australia, dove nessun umano aveva messo piede fino ad allora, divennero territorio di conquista di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori (il sito di Madjedbebe, nella Terra di Arnhem, è datato oltre 65.000 anni fa). Secondo alcuni modelli probabilistici, un popolamento stabile richiese all’incirca 5.000 anni, con la presenza di non meno di 130 individui dei due sessi ed un numero minimo di generazioni compreso tra 156 e 208.
Nel nostro viaggio intercontinentale a zig-zag alla ricerca delle tracce più antiche della presenza umana per macroregione del Vecchio Mondo, prima di trovarci tra Sundaland e Sahul avremmo dovuto attraversare la Penisola arabica ed il subcontinente indiano ma, come già notato, non tutte le pagine del libro della storia del genere Homo sono conservate, o integralmente leggibili: tante sono semplicemente volate via, mentre altre si sono sbiadite, ragione per la quale la cronologia della distribuzione dei siti antropici non rispetta affatto un tracciato centrifugo di espansione progressiva. Nel caso dell’Arabia, il sito più antico tra quelli noti fino ad oggi, Ti’s al Ghadah, nel desero del Nefud (che all’epoca non era un deserto, come non lo erano l’al-Dahna, il Rub al-Khali, le Wahiba Sands…), rimonta soltanto a circa mezzo milione di anni fa, mentre l’antichità del sito di Attirampakkam, nel Tamil Nadu, a sud dell’India, fluttua nell’incertezza tra 1,1 e 1,7 milioni di anni fa. Un certo consenso esiste invece a proposito del sito archeologico di Riwat, sulle colline Pabbi del Punjab pachistano, che potrebbe sfiorare i 2 milioni di anni (Homo erectus?).

Dall’Africa camminando per il mondo 

Athlinata, il cacciatore Yamana di mammiferi marini della Terra del Fuoco, la “fine del mondo”, simbolo dell’impatto devastante sulle comunità indigene di numerose regioni del pianeta causato dall’espansione coloniale europea (immagine dal volume di P. Hyades & J. Deniker “Mission scientifique du Cap Horn, 1882-1883”, Muséum national d'Histoire naturelle, Parigi, 1891)

Athlinata, il cacciatore Yamana di mammiferi marini della Terra del Fuoco, la “fine del mondo”, simbolo dell’impatto devastante sulle comunità indigene di numerose regioni del pianeta causato dall’espansione coloniale europea (immagine dal volume di P. Hyades & J. Deniker “Mission scientifique du Cap Horn, 1882-1883”, Muséum national d’Histoire naturelle, Parigi, 1891)

Alla fine ci siamo: anche se pochi, talvolta pochissimi e ripetutamente sul punto di scomparire, gli umani hanno camminato quasi ovunque sul pianeta, poco importa se durante una fase glaciale od un interglaciale, se sotto l’etichetta habilis, erectus, georgicus, antecessor, floresiensis, neanderthalensis… Ma per ripercorrere il viaggio dei nostri antenati diretti, i primi sapiens, bisognerebbe prima rientrare rapidamente in Africa per poi ripartire, in qualche momento tra 100.000 e 200.000 mila anni fa, seguendo talvolta le stesse, in altri casi differenti traiettorie rispetto a quelle percorse dai loro predecessori e contemporanei: altri esseri umani, diversi da loro e tra loro diversi, raramente incontrati molto da vicino, talvolta solo sfiorati, fino appunto a ritrovarsi soli alle soglie dell’Australia, prima, poi nello spazio immenso del Nuovo Mondo (cfr ilnuovopaese.it/a-piedi-dal-vecchio-al-nuovo-mondo-le-tappe-del-popolamento-delle-americhe/).
È appunto all’estremità meridionale del continente americano, alla “fine del mondo”, ai bordi del canale Beagle della Terra del Fuoco che termina la nostra avventura cominicata a Ledi-Geraru, mentre Athlinata ora solleva per l’ultima volta sorridente il suo arpone con l’apice di osso di balena seghettato verso tre sagome simili alla sua, ma con tra le mani altrettante carabine spianate contro la sua “primitività”. Fino a quel momento aveva soltanto incontrato gente come lui – gli Yamana – o a lui molto simile – gli Alacaluf, gli Ona – mentre ignorava che, nel frattempo, sul pianeta era apparsa e si stava rapidamente diffondendo una nuova specie umana: Homo vastator, il più terribile dei predatori.

(Parte seconda) 

 

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