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SCIENZA STORIA & NOI

«Vuoi essere umano? Allora partorirai con dolore». I rischi nell’evoluzione della specie

PelvisDelivery9

a cura di Roberto Macchiarelli

R. Macchiarelli(Paleoantropologo, già professore ordinario al Dipartimento Geoscienze dell’Università di Poitiers e al Muséum di Storia Naturale di Parigi)

«Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli» [Genesi 3,16].
La veridicità del versetto non può essere passata inosservata alla (quasi) totalità delle primipare, ma non solo, poco importa la loro origine e contesto del lieto evento: il “travaglio” porta infatti bene il suo nome. Eppure, tutti i mammiferi partoriscono, in genere senza tante complicazioni. Allora perché per una “femmina umana” si tratta di un evento più doloroso e rischioso di quanto sperimentato da tutte le grandi scimmie, i nostri parenti più prossimi nell’attuale biodiversità? Per capirlo dobbiamo guardare indietro nel tempo. Ma non subito.

I rischi della gestazione. (Da un'immagine della rivista "Science" (18/7/2024)

I rischi della gestazione. (Da un’immagine della rivista “Science” del 18/7/2024)

Nella forma di vita oggi a noi più vicina, lo scimpanzé, la massa corporea del nascituro rappresenta mediamente il 3 per cento di quella materna – contro il doppio negli umani – con un volume della testa modesto. Inoltre, il canale pelvico attraverso il quale transita il feto ha due caratteristiche principali che lo distinguono dalla condizione umana: dalla porzione superiore (di entrata) a quella inferiore (di uscita) ed attraverso quella intermedia, la sua forma è pressoché costante e il suo asse principale – quello secondo il quale si orienta la testa del nascituro cominciando la discesa – è sempre antero-posteriore, dunque perpendicolare al corpo della madre. In sostanza, il rapporto tra volume del canale, cioè lo spazio a disposizione, e quello occupato dalla testa del nascituro è estremamente favorevole e il tragitto verticale è lineare. Non ci sono aggiustamenti, correzioni di rotta da operare: la discesa dell’ascensore è priva di ostacoli, senza complicazioni, e il bebè esce dalla porta principale fierissimo, la testa in estensione (mentum anterior), lo sguardo in avanti allineato con quello della madre (come accade in contesto marino per i cuccioli di delfino). Quest’ultima, che cerca piuttosto la solitudine per gestire al meglio l’evento e rifugge la socialità, non necessita aiuto, certamente non per recuperare e portare senza rischi a sé il neonato per pulirlo, liberarlo dal cordone ombelicale e dal muco per favorirne la respirazione.

Perché complicare il parto nella femmina umana?

Ricostruzione artistica di una femmina ominina in avanzato stato di gravidanza con la posizione probabile del feto all’entrata del canale pelvico in prossimità dell’evento della nascita. (immagine da American Scientist, 2016)

Ricostruzione artistica di una femmina ominina in avanzato stato di gravidanza con la posizione probabile del feto all’entrata del canale pelvico in prossimità dell’evento della nascita (immagine da American Scientist, 2016)

Tutto questo ci ricorda l’esperienza vissuta dalle nostre mamme? Certamente no, anche nel caso di un parto normale, fisiologico (eutocico).
A differenza dei nostri parenti più prossimi, negli umani le dimensioni della testa del feto, in assoluto superiori a quelle di qualsiasi altro membro dell’Ordine dei Primati cui apparteniamo, sfiorano pericolosamente quelle del volume pelvico, le cui proporzioni, tanto per semplificare le cose, variano per giunta in funzione del livello della filiera. All’entrata, l’asse principale del canale è trasversale, dunque opposto a quello dello scimpanzé. Ma questo non sarebbe nulla se, sorpresa, giusto intorno a metà percorso l’asse non cambiasse di 90° per divenire perpendicolare. Dunque, a noi umani non basta ruotare la testa (e le spalle) una volta per lanciarci nell’avventura, ma è indispensabile farlo una seconda volta! Si tratta della (dura, per le nostre mamme) “legge” di Désiré-Joseph Joulin, il medico francese che la descrisse nel 1864: dati i piani direzionali dei tre distretti ostetrici del bacino femminile, durante la discesa il feto orienta il suo diametro maggiore (che coincide sempre con quello antero-posteriore della testa) via via secondo l’asse maggiore dello spazio a disposizione. Che, come abbiamo visto, cambia. Non si tratta dunque di un’autostrada, com’è il caso del nostro lontano (comunque attualmente il più prossimo) parente peloso, ma di una serie di tornanti con angolazioni diverse alla cui fine il bebè si presenta non già come lo scimpanzé (e il delfino), cioè con lo sguardo orientato nel senso della madre, ma nella condizione opposta (occiput anterior), mentre il viso scivola posteriormente seguendo la concavità dell’osso sacro.
Tralasciando per semplicità tutta la gamma di possibili complicazioni (parto distocico), il partorire umano è dunque assai articolato e una partecipazione sociale attiva, caratteristica universale presente in qualsiasi tipo di comunità e contesto socio-culturale, diviene fondamentale per aiutare proprio il recupero fisico del neonato prevenendo possibili lesioni (anche neurologiche) causate da un tentativo maldestro della madre di portarlo a sé.
Per una testimonianza della rilevanza dell’intervento esterno basta osservare la scena del parto rappresentata nel bassorilievo della tomba monumentale n. 100 della necropoli romano-imperiale dell’Isola Sacra (Porto), presso la foce del Tevere, dov’è raffigurata in azione la levatrice Scribonia Attice, ivi sepolta con il marito Marcus Ulpius Amerimnus, medico chirurgo.
Ma allora, per comodità, per abbassare i rischi e, magari, soffrire un po’ meno, non potevamo mantenere il modello dello scimpanzé? No, semplicemente perché il prototipo ereditato dai nostri antenati più diretti non è quello scimmiesco. E poi, anche perché… siamo ambiziosi. Andiamo con ordine.
Tra quattro e due milioni di anni fa, all’epoca delle tante Lucy, il bacino degli australopiteci era piuttosto largo, svasato, ma relativamente compresso sull’asse antero-posteriore, dunque opposto a quello scimmiesco. Questa morfologia si era gradualmente imposta nei loro antenati come adattamento funzionale all’adozione di una bipedia sempre più efficiente, un sistema di locomozione originale e tipico del “ramo ominino”, non condiviso con gli antenati dello scimpanzé (il ramo “panino”). Distanziare tra di loro, per quanto possibile, le due coppie articolari femore-osso dell’anca era divenuto un imperativo biomeccanico. Negli australopiteci, l’asse principale d’entrata del feto nella filiera era dunque trasversale e, con modeste variazioni, lo rimaneva fino a fine percorso. Questo implicava una rotazione ad inizio corsa seguita probabilmente da una mezza rotazione terminale per permettere la fuoriuscita delle spalle. Pur se la massa corporea dei figli di Lucy rappresentava già circa il 5 per cento di quella materna, i bebè nascevano ancora con un volume cerebrale modesto, che non necessitava spazio supplementare. Soprattutto, ancora modeste complicazioni e rischi ridotti per le mamme.
Ma ecco che già nei primi rappresentanti del nostro genere si manifestò l’ambizione evolutiva di voler conciliare i vantaggi (e alcuni svantaggi) di una raffinata bipedia con la procreazione di cuccioli dotati di un cervello via via più voluminoso di quello dei nostri antenati. Ambizione legittima, certo, favorita proprio dalla selezione naturale per via degli ovvi benefici. Peccato però che, dal punto di vista biomeccanico, si tratti di una contradictio in terminis, un vero “dilemma ostetrico”, come lo qualificò nel 1960 l’antropologo americano Sherwood Washburn, con alti, altissimi costi: «… Con dolore partorirai figli».

Orientamento più comune del cranio di un nascituro umano nelle fasi immediatamente precedenti l’espulsione: la fronte (convessa) è appena transitata davanti all’osso sacro della madre (concavo) e gli occhi (il viso) guardano in direzione opposta a quella materna. (Immagine da un articolo pubblicato da Roberto Macchiarelli in una rivista francese)

Orientamento più comune del cranio di un nascituro umano nelle fasi immediatamente precedenti l’espulsione: la fronte (convessa) è appena transitata davanti all’osso sacro della madre (concavo) e gli occhi (il viso) guardano in direzione opposta a quella materna. (Immagine ad uso didattico fornitaci dal professor  Roberto Macchiarelli)

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